Anacronismi: il cinema di Eugène Green all’ex Asilo Filangieri di Napoli
di Federico Francioni
Anacronismi; fratture, faglie temporali. Si annida qui (forse) una forma particolare di resistenza al contemporaneo eterno presente, in cui tutto sembra già essere accaduto e trascorso; anche oltre il gioco e la reinvenzione postmoderna (anch’essa ormai storicamente lontana). Essere “fuori dal tempo”, esiliato dal presente, è un sintomo; uno sguardo che cerca la sostanza e nient’altro, e ci permette, assecondandolo, di uscire da noi stessi. Essere o perdersi in uno dei tanti eteronimi nati da quella particolare malattia dell’io di Fernando Pessoa; nascere al centro del mondo contemporaneo, e fuggire in un altro tempo per reinventare la propria identità; imparare cinque lingue come cinque visioni diverse del mondo; incarnare la possibilità di conoscenza dell’Uomo Barocco, oggi – quell’uomo che, accanto alla vivisezione arida del reale da parte della scienza (e della tecnica) sapeva far convivere lo spazio del mistero, di un porsi in ascolto che poteva rivelare e disvelare aspetti contraddittori, e tuttavia reali, dell’essere presenza nel mondo.
Tutto questo, esposto in estrema sintesi e certo non riepilogativo, gravita attorno ad Eugène Green. Nato negli Stati Uniti (da sempre definiti “La Barbarie”) nel 1947, ma venuto sostanzialmente al mondo – come afferma lui stesso – soltanto vent’anni dopo, quando approda nella Parigi del fermento sessantottino e inizia il suo percorso di ricostruzione, acquisendo la nazionalità francese e diventando nel corso degli anni uno dei maggiori esperti della tradizione teatrale barocca. Poi, verso i cinquant’anni, un nuovo cambiamento: realizza il suo primo film Toutes les Nuits che vince il Premio Delluc per l’opera prima e si guadagna un attestato di grande stima e rispetto da parte del maestro Jean-Luc Godard, che ne intravede subito le potenzialità. Da qui, inizia una nuova vita come cineasta, e come romanziere, pubblicato da Gallimard. Eppure, sostanzialmente, il cinema di Eugène Green è un cinema che resta in ombra – in Italia però va detto che il festival di Torino gli ha dedicato una retrospettiva nel 2012, a cura di Massimo Causo e Roberto Manassero. Facendo riferimento alla categoria individuata da Paul Schrader qualcuno parla di lui come di un cineasta trascendentale; qualcun altro lo indica come un prosecutore (o un plagiatore) di Robert Bresson; altri lo accostano a Manoel de Oliveira. Le etichette però valgono poco a classificarlo come autore. Sembra quasi, soprattutto nei suoi primi film, di intravedere schegge e frammenti della grande stagione del cinema d’autore degli anni ’70, giunte però fuori tempo massimo, alle soglie del nuovo millennio. È un cinema che a volte non arriva a superare agilmente i suoi stessi limiti (soprattutto, forse, negli ultimi lavori, riusciti in parte), ma a cui si deve riconoscere sempre la profonda autenticità.
Eppure, nel suo rigore quasi austero – in cui però non manca mai una considerevole dose d’ironia – nell’intensità della parola pronunciata, dei campi e controcampi densi e serrati, per catturare l’energia del personaggio/uomo/attore in cui finzione e presenza reale arrivano a toccarsi, il cinema di Green tende unicamente allo svelamento di un’altra possibile realtà nascosta; una verità che ci vive accanto. È un cinema che di intellettuale (nel senso “eccessivamente razionale” del termine, come dice Eugène) ha poco o niente.
È il caso proprio di Toutes les Nuits, il suo primo film: quasi un manifesto di poetica, che verrà proiettato domani 10 aprile alle 19,30 all’ex Asilo Filangieri di Napoli, in vico Maffei, 4, in versione originale con sottotitoli in italiano. Ambientato nella Parigi del ’68, il film racconta i destini di due amici, Jules ed Henri, che si innamorano della stessa donna, Emilie, e avranno con lei diversi incontri nel corso di dieci anni. Destini diversi ed intrecciati, visioni del mondo che maturando, “integrandosi nella società”, si allontanano sempre di più; esperienze di vita, e passione. Jules, che dalla provincia si ritrova in una capitale in pieno tumulto rivoluzionario, ed Henri, che persegue invece il suo destino pragmatico, già segnato, di avvocato ed esperto di diritto; Emilie, al centro, che attraversa questi due mondi contrapposti, e che intratterrà con Jules un profondo rapporto epistolare, senza che i due arrivino quasi mai a sfiorarsi. Il modello delle grandi narrazioni romanzesche – e non è un caso infatti, che il film sia ispirato dal modello dell’Educazione Sentimentale di Gustave Flaubert (o più precisamente, di una sua precedente versione inedita, pubblicata soltanto nel ‘900, e chiamata La Prima Educazione Sentimentale).
Già in questo primo film, lo stile di Green è chiaro: un forte impianto drammaturgico, e un cinema che cerca la parola, la presenza. Il primo piano come fonte di energia; la città come luogo misterioso di spazi e aperture; la Storia che circonda i protagonisti, con le sue contrapposizioni. Uomini in cerca di sé stessi, ma soprattutto del rapporto con l’altro, che è sempre un rapporto conflittuale e misterioso. Un film incantevole e sublime, che vi consigliamo di non perdere.
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