“La conversa di Belfort” di Robert Bresson: la banalità del bene
Girare vuol dire andare a un incontro.
Niente nell’inatteso che non sia atteso segretamente da te.
Robert Bresson
Ultimo appuntamento con “L’invenzione del silenzio”, retrospettiva completa sul cinema di Robert Bresson, svoltasi all’ex Asilo Filangieri di Napoli in vico Maffei, 4 (adiacenze san Gregorio Armeno, il film verrà proiettato giovedì 18 aprile alle 20,00), La conversa di Belfort costituisce per il regista francese l’esordio nel lungometraggio, nel 1943 all’età di quarantadue anni, dopo il tentativo messo in campo nove anni prima con il cortometraggio Les affaires publiques, sorta di commedia slapstick che l’autore più tardi ripudiò.
Ancora incerto sulla via da intraprendere e prima di assumere pienamente lo stile per cui è diventato unico e inimitabile, Bresson diresse quest’opera servendosi di attori (o, meglio, attrici) professionisti: le protagoniste del film appartengono infatti alla Comédie Française, come i titoli di testa del film si premurano di specificare. Inoltre, a differenza delle opere successive, il racconto si avvale di una sceneggiatura più solida con i dialoghi a fare da principale spinta per lo svolgimento del racconto. Come sarà per il successivo Perfidia, cui aveva partecipato Jean Cocteau, il regista riceve l’apporto di uno scrittore di professione, il romanziere e commediografo Jean Giraudoux, autore anche della sceneggiatura di La Marchesa di Langeais di Jacques de Baroncelli, tratto dall’omonimo testo di Honoré de Balzac.
Fin dal suo titolo (ma bisognerà a questo punto richiamare l’originale Les anges du péché) La conversa di Belfort si pone come un’opera di contrasti netti: gli “angeli” del titolo, creature che secondo la fede cristiana dovrebbero assistere gli uomini e aiutarli a mantenere la retta via, sono qui associati con il peccato creando, sin da subito, un cortocircuito nella narrazione. D’altronde, questa dicotomia percorre tutto il film in maniera talvolta sotterranea, talaltra esplicita: la maggior parte delle suore del convento sono infatti delle ex-detenute, che trovano nel luogo religioso in cui sono amorevolmente accolte la possibilità di un riscatto morale e persino sociale (alcune di esse non saprebbero dove andare, avendo ormai perduto tutto), così come il bianco e il nero che si alterna nei loro soggoli contribuisce a sottolineare questa continua presenza di una situazione dove a prevalere è il chiaroscuro.
È dunque quasi fatale che il film si sviluppi intorno a due caratteri in forte opposizione, quello di Anne-Marie, ex signora borghese fulminata sulla via di Damasco e desiderosa di salvare anime perdute, e la ex-galeotta Thérèse, vittima incolpevole di un raggiro e poi omicida del suo persecutore, che si rifugia nel convento per sfuggire alla cattura da parte della polizia. La forza e il fascino di un’opera straordinaria e sottostimata come La conversa di Belfort sta proprio nella contrapposizione apparente manichea dei due caratteri che finiscono, nella parte finale, per dimostrarsi assai più simili di quanto sembrino e di apparire l’uno lo specchio dell’altro in un crescendo finale di emozioni che il film scandisce con ottimo ritmo drammatico.
Per quanto sia il bianco il colore prevalente, un bianco che risulta talvolta abbacinante, Bresson inserisce nel racconto delle vere e proprie “macchie scure” che invadono e sporcano l’apparente illibatezza del convento. Basti pensare al gatto nero, additato come simbolo del Male che si è intrufolato nel luogo sacro, o alle vesti scure di alcune monache, che valgono come elementi di inquietudine e di crisi, sinistri presagi vòlti a turbare la virginale quiete del luogo. In questo senso, appare fondamentale il lavoro di Philippe Agostini, direttore della fotografia di grande valore, che aveva fornito un validissimo contributo anche a pietre miliari della storia del cinema francese come Il porto delle nebbie e Alba tragica di Marcel Carné. Oltre a un’ottima prova delle protagoniste, infatti, La conversa di Belfort trae molta della sua forza e del suo fascino dal modo in cui il regista e il direttore della fotografia lavorano su luci e ombre, e sui contrasti chiaroscurali, traendo profitto anche dalla contrapposizione/sovrapposizione dei due luoghi principali dove si svolge la vicenda: il convento e il carcere. Presentati entrambi come luoghi concentrazionari, sono allo stesso tempo luoghi di perdizione e di salvezza in cui alle sbarre della prigione fanno da contrappunto le celle delle suore e le rifrazioni sui muri delle varie porte e finestre del convento che disegnano forme sinistre e inquietanti.
Sebbene non siamo dalle parti del successivo Narciso nero di Michael Powell e Emeric Pressburger, fiammeggiante capolavoro ambientato in un convento sulle pendici dell’Himalaya, nel quale il furore erotico finiva per sconvolgere l’esistenza delle religiose, La conversa di Belfort è un’opera cristallina che non manca di una sotterranea e profonda inquietudine, interrogando in maniera radicale una visione ascetica del mondo cui pure in alcuni momenti il regista dà l’impressione di aderire. Splendido.
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