Light grey
di Eliana Petrizzi
Io morta al centro della casa: il mio corpo presente si è fatto imprendibile. Il viso, le mani, l’altezza e il peso sono certamente i miei, ma altrettanto certamente sono sparita. Mi sono amata? Signorsì, ogni giorno e con diligenza, come sistemare negli scaffali i libri mai letti.
I crampi della paura preferiscono le ore vuote, quando la constatazione del fallimento si fa più lucida. Pregando, di solito chiedo aiuto per la mia salute prima e per la mia anima poi. Chiedo scusa per il mio opportunismo da raccatto: quando le cose vanno bene non so che farmene di divinità e preghiere. Poi però, quando una difficoltà qualsiasi mi trova impreparata mi aggrappo alle vesti di Dio, chiedendogli persino di raccomandarmi qualche Santo che metta una buona parola tra me e l’Assoluto. A un certo punto la preghiera si fa confusa; una specie di farneticazione in cui continuo a scusarmi, perché chiedere a Dio cose precise, dicono, contrasta con la sua volontà già chiaramente prevista per te. Forse dovrei uscire più spesso, frequentare gli altri, ma il pensiero mi ripugna. Noia, chiasso e messe in scena, in uno straripante sperpero di non senso. Nulla difende dalla brutalità degli stolti. E tuttavia, davanti a tanta pena eccomi provare una fascinazione profonda: la somma delle stupidità mie ed altrui produce lo spettacolo maestoso di un palazzo che implode o di una montagna che frana. In strada, saluto l’interlocutore accidentale, coppie infelici e serene, giovani sfaldati come paesaggi nell’afa. Fumo snello che sale, ciminiere ammutolite, calmo spargimento di cose che se ne vanno. I tacchi dei miei stivali segnano il passo, con la spensieratezza che si tiene nelle file di dietro appresso a un funerale. Un rudere sulla collina mi ricorda che cercare conforto è il solo senso della vita. Odore di pane tra le mani strette, finestre cieche, il nuoto dritto di una gazza sui pini. Nel cassetto di mio padre, gli oggetti a lui cari sono le case di un paese che non ho mai voluto abitare, ma quando è arrivato il temporale, è sotto i loro balconi che sono andata a cercare riparo.
L’impressione è di essere rimasta ai margini di un’impresa che mi riguardava. Calma sul divano, stupore alla vista del cielo migrante. Cerco di ricordare episodi della mia infanzia. Ho quattro anni; mi aggiro carponi nell’erba in cerca di piccoli insetti incidentati a cui riparare una zampetta o un’ala. A nove anni, il mio gioco preferito era mettere pietre sui binari con mia sorella, sperando che il treno deragliasse. Altri episodi apparentemente insignificanti della mia giovinezza: una canzoncina scherzosa che mio padre canticchiava e che con le mie sorelle ripetevamo allo sfinimento; la molletta per i panni che chiudevo sulla punta del naso di notte, nella speranza che mi crescesse all’insù; l’odore di calce fresca che, misto a quello dell’erba, mi annunciava l’inizio dell’estate nel cortile. L’albero di Natale dei miei quattro anni campeggiava al centro del salone; lo ricordo immenso per via della più breve distanza tra la mia testa e i piedi di allora. Ritrovato l’altro giorno per caso pulendo il garage, è alto meno di un metro. Gelosia a undici anni per tre peli appena spuntati sotto le ascelle della compagna di classe che più detestavo. Il profumo tra collo e spalla che aveva il ragazzo di cui ero innamorata a tredici anni; ballavamo un lento al Petit Paradise, ero una ragazza goffa e lui non mi voleva. Mi capita a volte di sognare la ventenne che ero. Mi curavo poco, non ne avevo ancora bisogno. Mi sveglio al mattino cercando la ragazza che non vorrei mai smettere di diventare. È di fatto incomprensibile la tristezza per le cose che finiscono, considerando che non c’è altra regola nella vita. Tutto nasce in un momento di pienezza. Poi il passo si fa calmo e arriva il silenzio, in cui brillano misteriose tutte le cose.
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