Rino Genovese, l’attore congegno
Essere nato ai principi del Novecento deve aver scavato e impresso tutto il carico espressivo di un secolo potentissimo sopra il suo volto dagli occhi accesi e penetranti, perché poi, Rino Genovese, con la sua recitazione, sarebbe riuscito a restituire quella profonda ed enigmatica incisione.
Classe 1905, napoletano e figlio d’arte, nato da Clelia Gaioni, attrice, e da Raffaele Genovese, suggeritore in palcoscenico. Il suggeritore, quella figura antica, ormai desueta e quasi scomparsa, che nel gergo teatrale più raffinato passava sotto la voce del rammentatore. Voce, sì, sottile e invisibile, riservata all’orecchio dell’attore e lontana da quello del pubblico. I rammentatori conoscevano il ritmo e i tempi comici di scena anche meglio degli attori stessi. Eppure, oggi quasi più nessuno ricorda la loro figura discreta e preziosa. Dimenticati, come se la loro funzione li avesse destinati sin dal principio a quel riparo estremo che a teatro è un indispensabile nascosto, mentre fuori è condotto a un inevitabile dimenticatoio. Pure questo fa parte del campionario gelido e spietato riposto ai margini del palcoscenico.
Un piccolo Rino Genovese calca il palcoscenico già da bambino, nella compagnia di Gennaro Pantalena, grande caratterista del teatro napoletano di fine Ottocento, del quale tra le sue più celebri interpretazioni si ricorda quella di Michele Boccadifuoco in Assunta Spina di Salvatore Di Giacomo, autore molto caro all’attore partenopeo.Dopo le es perienze di infanzia, negli anni ’20 Genovese recita con Vincenzo Scarpetta e Raffaele Viviani, per una giovinezza di attore trascorsa col vernacolo a fior di labbra. Il suo debutto nel cinema si registra alla fine degli anni ’30, quando, sotto la direzione di Amleto Palermi, interpreta un ruolo nel film Napoli che non muore. Quell’interpretazione sarà il battesimo a un genere di personaggi che lo vorranno spesso impegnato nei panni di figuri dall’animo ambiguo e sinistro che, poco a poco, gli varranno l’assegnazione di parti losche, dei cosiddetti cattivi. Dopo l’esperienza vernacolare si dedica alla prosa in lingua, lavorando con Ruggero Ruggeri, Dina Galli, Antonio Gaudioso e Giulio Donadio, per poi passare, successivamente, anche al fianco di attori come Carlo Dapporto, Ugo Tognazzi e Walter Chiari.
In una filmografia che formerà una carriera cinematografica di quasi trent’anni non è difficile scovare le caratteristiche di un attore maschera, soprattutto perché il suo volto pare sin dal principio essere destinato a un’inclinazione non così semplice da riscontrare in un attore. L’accensione dei suoi occhi sopra le labbra appuntite illumina un volto dotato di quel verbo ulteriore che in certi frangenti soccorre il potere della parola. Con la capacità, anche questa in dote a pochi, di trasmettere il pathos del momento attraverso ruoli a volte impiegati in scena per poco tempo. Ne Le quattro giornate di Napoli Rino Genovese, nei panni di un cittadino-inquilino, irrompe in una delle scene più toccanti di tutto il film glossando di rassegnato realismo la richiesta di coraggio dei rivoluzionari napoletani scesi in strada per chiedere aiuto a tutti gli abitanti della città. “Pazzi! Pazzi che siete. Ma che vi siete messi in capo?” esclama dal balcone che sintetizza la parte afflitta e scoraggiata di una Napoli in mano all’esercito tedesco. Una battuta ad occhi accesi che non è soltanto la bandiera sofferente e ingrigita di chi pare non voler reagire all’invasore, ma è, soprattutto, l’ammonimento all’impossibilità di affermare i valori umani sopra la smania di potere dell’uomo, al di là delle forme con cui questa nera tensione si manifesti. Il mezzo secolo successivo darà ragione al motto di spirito di quella feroce e dissacrante battuta che soltanto un attore come Rino Genovese avrebbe potuto pronunciare donandole quella lucida disperazione.
E come non ricordare la subdola e serpeggiante codardia del Cavaliere Dabbene, personaggio viscido e detestabile che in Peppino Girella attenta alla pura moralità dei tre amici prima sfruttati per portargli e termine dei lavori e poi deliberatamente denunciati alla polizia per un furto da loro mai commesso. Nella scena di Eduardo De Filippo, Ugo D’Alessio, Enzo Cannavale, Antonio Casagrande e Rino Genovese rimbalza un samba recitativo che è la spiritualità adombrata e genuina di una generazione destinata a soccombere. Eppur viva e dignitosa, fino allo stremo della rinuncia a ogni opportunità. E Rino Genovese in quella scena dello sceneggiato a puntate di Eduardo interpreta il tentativo di corrosione con estrema efficacia, transitando dalla padronanza e la tracotanza di un potentato d’occasione al timore tremante di una giusta rivalsa da parte delle sue vittime. In pochi minuti, un’intera variazione di stile e di stato d’animo. Per restare alle doti dei grandi attori.
Altrettanto eseguito al meglio, restando tra le sue collaborazioni con Eduardo De Filippo, il personaggio di Roberto Magliano che, ne La grande magia, è il creditore armato nella scena in cui Calogero Di Spelta è nell’inganno architettato e condotto da Otto Marvuglia. Inganno in cui Rino Genovese irrompe per infrangere l’incanto artificiale con le sue intenzioni severamente offuscate dalla necessità di vedersi restituire il danaro che gli occorre per gravi problemi familiari, e che lì lo vede costretto, a discapito della sua stessa moralità, a minacciare di morte il suo debitore per indurlo a saldarlo. E anche lì, alla maniera di Rino Genovese, voce e maschera si mettono in moto per una notevole variabilità degli stati d’animo e delle reazioni. L’attore congegno.