“The Death and Life of John F. Donovan”, il Dolan scomparso
Avrebbe dovuto fare bella mostra di sé al Festival di Cannes dello scorso anno, in un consesso dove l’enfant prodige canadese è accolto solitamente come una star. Ma poi non se n’è fatto niente perché The Death and Life of J. F. Donovan, settimo lungometraggio di Xavier Dolan (il primo in lingua inglese), non era ancora pronto. Si era poi parlato della Mostra di Venezia ma alla fine il film è finito al Toronto Film Festival, dove è stato accolto con grande sussiego, stroncato in maniera quasi unanime. Intanto Jessica Chastain si è vista tagliare il suo personaggio, che è poi scomparso dalla versione definitiva. Se è vero che circostanze del genere possono verificarsi (per quanto difficilmente riguardino interpreti molto popolari), la cosa ha destato parecchio scalpore e suscitato più di un sospetto visto che, prima della presentazione della pellicola in terra canadese, la Chastain campeggiava in quasi tutte le immagini promozionali del film. Quanto alla distribuzione, il film è uscito in Francia il mese scorso (intanto Dolan sta per presentare in concorso a Cannes un nuovo lavoro, Matthias et Maxime), spaccando in due la critica mentre in Italia la Lucky Red ha deciso di rinviarne l’uscita, inizialmente prevista ai primi di marzo, a data da destinarsi.
Mi sono imbattuto in The Death and Life of J. F. Donovan durante un viaggio di piacere a Bordeaux, dove il film era in programma nella splendido cinema “Utopia”, un multisala ospitato all’interno di un’antica chiesa sconsacrata, nella quale non si svolgono più funzioni religiose dai tempi della Rivoluzione francese. Nel settimo lungometraggio di Dolan si avverte, fin dalle prime sequenze, il grande sforzo da parte dell’autore canadese di mettere in campo un’opera narrativamente audace e ambiziosa dove per la prima volta egli sente l’esigenza di muoversi su due distinti piani temporali, separati da una decina d’anni, il 2006 e il 2016. La storia, infatti, racconta dell’undicenne Rupert Turner (Jacob Tremblay, non nuovo a personaggi complessi e problematici) che vive a Londra con sua madre (Natalie Portman) e intrattiene un amichevole rapporto epistolare con l’adorato attore John Francis Donovan (Kit Harington, il Jon Snow de Il trono di spade), protagonista di una serie americana molto seguita. La corrispondenza dura sino alla morte misteriosa di Donovan, che ci viene raccontata nella sequenza d’apertura. Nel presente del film Rupert, divenuto a sua volta attore, viene intervistato da una giornalista (Thandie Newton) in occasione della pubblicazione della sua corrispondenza con Donovan, e lo spettatore scopre la loro storia attraverso una serie di flashback.
The Death and Life of John. F. Donovan si presenta quindi come il resoconto di due vite parallele che vedono i protagonisti condividere alcuni aspetti biografici fondamentali: innanzitutto il lavoro di attore, con Rupert che sta già facendo le prime audizioni per emulare il suo modello e costruire la propria vita a immagine e somiglianza di quella di John, a cui si aggiunge il fatto che entrambi hanno un rapporto complicato con le rispettive madri, tutt’e due abbandonate dai loro uomini. Tornano quindi i temi costanti del cinema di Dolan, dominato dal rapporto di amore/odio tra madre e figlio, che in questo caso viene addirittura raddoppiato e, dunque, amplificato. Come in buona parte dei lavori precedenti, per tutta la durata del film si avverte la sensazione che il giovane regista voglia inondare la materia di emotività, descrivere un’angoscia e un turbamento esistenziali che non devono essergli stati estranei. Purtroppo, uno dei maggiori punti deboli di questo Donovan sembra proprio risiedere in questa ricerca quasi spasmodica dell’emozione a tutti i costi, che spinge il regista a calcare pesantemente la mano nella costruzione di alcune sequenze cruciali che finiscono per risultare stucchevoli, anche in virtù di un utilizzo a dir poco invasivo della musica, quasi che il regista, dubbioso sugli effetti drammatici delle immagini che imbastisce, senta il bisogno di caricarle ulteriormente, sparando la colonna sonora a tutto volume.
Tuttavia, il limite maggiore del film, e il suo difetto principale, sta nel manico, vale a dire nella sceneggiatura. Non è dato sapere quanto ci sia di vero e di autobiografico nella vicenda narrata ma c’è da dire che essa appare davvero poco credibile, almeno nei modi e nei termini in cui il racconto va srotolandosi. Infatti, si fa davvero fatica a credere che il personaggio di Donovan, popolarissimo e subissato da migliaia di fan, dia seguito alle lettere di un bambino e si metta a intrattenere con lui una corrispondenza, per di più scrivendogli di suo pugno. Né si capisce perché dovrebbe rivelare al piccolo Rupert i particolari più intimi della sua esistenza, compresa un’omosessualità che nella vita pubblica cerca a tutti i costi di nascondere. Regista, co-produttore, montatore, costumista e persino autore dei sottotitoli, Dolan mostra tutti i suoi limiti in fase di script (del quale è co-autore insieme a Jacob Tiernay) mettendo insieme una vicenda che, quando si salva dall’inverosimiglianza, diventa schematica e scolastica, come nel rapporto tra il Rupert cresciuto e la giornalista, espediente narrativo abusato e qui riproposto senza alcuna efficacia.
Per quanto il talento del regista continui qua e là a lampeggiare, soprattutto nell’utilizzo di alcuni splendidi primi piani, e sebbene si senta un certo coinvolgimento personale da parte sua, il risultato complessivo appare dunque incoerente, ridondante, a tratti persino grossolano, con un Kit Harington che, come buona parte del cast, viene continuamente spinto verso l’overacting, in un ruolo che necessiterebbe di ben più sottili sfumature psicologiche. The Death and Life of John. F. Donovan è un’opera in cui tutto è spiegato, rivelato, pesantemente sottolineato, dove la nevrosi deve assolutamente esplicitarsi nell’urlo isterico, e il dolore dei personaggi è autentico solo se corredato da tutta l’enfasi possibile. Nella reiterazione dello scontro verbale tra madri e figli, con tutto il campionario di dipendenze e di rapporti obbligati di causa/effetto, nella riproposizione di riunioni familiari sempre più nevrotiche, Dolan sembra dirci che se quello in cui viviamo non è certamente il migliore dei mondi possibili, esso è però senz’altro dominato dal più ferreo determinismo.
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