Cannes 2019, giorno 4: il nuovo Almodóvar è un colpo al cuore
Sogno, sogno e tu sei con me
chiudo gli occhi
e in cielo splende già
una luce.
Mina, Come sinfonia (testo di Pino Donaggio)
Quarta giornata di proiezioni sulla Croisette e, dopo il bellissimo Sorry, We Missed You di Ken Loach il Concorso continua ad attestarsi su livelli molto alti. Ieri pomeriggio, dopo un’interminabile e assai mal gestita coda, frutto di nuove (e, a dir poco, discutibili) regole sulle proiezioni stampa, siamo riusciti a mettere gli occhi sull’affascinante Little Joe, diretto dalla talentuosa cineasta austriaca Jessica Hausner. Il film ruota intorno a un laboratorio specialistico di botanica, dove è stato creata una nuova specie di fiore molto particolare, di colore rosso vermiglio, battezzato con il nome “Little Joe”, mutuato dal nome del figlio adolescente di Alice, la scienziata autrice della scoperta. Se conservato alle giuste temperature, nutrito correttamente e se si parla con esso regolarmente, Little Joe possiede la speciale caratteristica di rendere felice il suo proprietario. Quando, con il passare del tempo, si verifica una serie di strani fenomeni, Alice comincia a sospettare che Little Joe non sia così inoffensiva come il suo nome suggerirebbe: infatti, le persone che entrano in contatto con la pianta sembrano subire dei cambi di personalità.
Come nei precedenti film, Jessica Hausner lavora sugli aspetti psicologici e parapsicologici che si sviluppano all’interno delle comunità umane (la mente va in particolare ai precedenti Hotel e Lourdes) e imbastisce un anomalo thriller fantascientifico che ragiona sulla presenza del mistero nella realtà, sul segreto che ciascun essere umano porta in sé e sulle conseguenze dei cambiamenti delle persone che ci sono vicine, cambiamenti che mettono solitamente in crisi la nostra sicurezza e la nostra stabilità psichica. Una persona che crediamo di conoscere ci diventa estranea, la vicinanza si trasforma in distanza mentre viene e mancare il desiderio di comprensione reciproca, di empatia e di simbiosi: l’abituale si trasforma in perturbante, ciò che era rassicurante genera in noi sospetto e paura. La regia è estremamente calibrata, sebbene rischi di cadere qua e là nell’esercizio di stile, ma la Hausner governa benissimo la materia e fa scaturire dalle ricercatissime immagini che si presentano davanti all’occhio dello spettatore un’atmosfera sospesa e angosciosa dentro la quale ci si ritrova come avvolti dentro una spirale. Accolto da un caloroso applauso, Little Joe ha tutte le carte in regola per dire la sua nel palmarès finale sdoganando la sua intelligente autrice.
Ieri è stata comunque soprattutto la giornata di Dolor y gloria, il nuovo film di Pedro Almodóvar, da ieri nelle sale italiane, che ruota intorno all’anziano regista Salvador Mallo, che deve fare i conti con l’astinenza creativa, un precario stato di salute e alcuni nodi irrisolti nella sua vita. Un giorno riceve la notizia che il suo film Sabor, da lui realizzato circa trent’anni prima, è stato restaurato dalla Cineteca Nazionale di Madrid perché considerato ormai un classico, sebbene il regista non amasse particolarmente questa sua opera, causa scatenante del litigio con l’attore protagonista. La rimessa in circolazione della pellicola diventa per Salvador Mallo l’occasione per rivivere alcuni momenti cruciali della sua esistenza, rivedere alcune persone importanti, riandare con la memoria ai tempi in cui viveva con sua madre all’interno di una grotta in un remoto villaggio spagnolo.
Non è difficile ravvisare in Dolor y gloria una forte componente autobiografica, tale da rendere il ventiduesimo lungometraggio del grande autore spagnolo un film quasi testamentario, in cui Almodóvar si racconta sottovoce, con pudore e delicatezza, quasi in sordina, mettendo l’accento non tanto sugli avvenimenti (alcuni dei quali inventati) quanto sull’importanza del cinema nella sua vita. Attraverso l’alter ego Antonio Banderas, all’ottava collaborazione con il regista e che qui regala un’interpretazione pregevole per misura e intensità, l’autore di Tutto su mia madre mette in scena il suo lato più privato mostrandosi come un uomo appassionato di arte senza tralasciare i suoi aspetti più deboli, che fanno di lui un uomo comune, fisicamente e psichicamente fragile, persino indifeso, capace di riconoscere i suoi errori ma anche l’importanza cruciale del cinema per la sua vita e quella degli altri.
In Dolor y gloria c’è tutta la passione vitale di un uomo che ha la forza di ammettere la sua debolezza e il coraggio di mostrarsi bisognoso del sostegno altrui ma anche quella di riconoscere il suo valore artistico, l’influenza positiva esercitata dal suo lavoro sulla vita degli altri. Se la caverna platonica, con le ombre degli uomini che si proiettano sul muro viene spesso additata come metafora della settima arte, non è di scarso rilievo che sia la casa in pietra in cui il piccolo Salvador va ad abitare con sua madre il luogo in cui avviene la scoperta della sua omosessualità, davanti al corpo nudo del giovane muratore che non a caso possiede doti artistiche e il cui abbellimento dell’abitazione con strati di nuova pittura e coloratissimi azulejos costituisce il primo incontro, da parte del bambino, con qualcosa che, se non è propriamente arte, molto vi assomiglia.
Al centro del racconto c’è ancora una volta la figura della madre, già presente nel suo film di maggior successo, Tutto su mia madre, e trattato da un punto di vista femminile nel precedente Julieta, altro splendido e lacerante resoconto su sentimenti e nodi irrisolti nella vita di alcune persone. Il personaggio della madre, interpretato da un’icona del cinema almodovariano come Penélope Cruz e, da anziana, da Julieta Serrano, è allo stesso tempo concreto, nel suo essere impregnato di carnalità e di calore, e astratto, per la simbologia del quale viene caricato: immagine della patria “santa, cattolica e apostolica”, rifiutata con ribellione, respinta nel momento della gloria, e rimpianta in quello del dolore.
Dolor y gloria è un’opera sublime che trae la sua forza dall’atmosfera rarefatta e sospesa della quale è imbevuta, dalla malinconia e da una sorta di “tristezza dolce” che la attraversa e la percorre dall’inizio alla fine, e dove l’autore può finalmente trovare la sua pace solo quando il suo cammino lo porta a comprendere che la vita e l’arte non sono in competizione: sono la stessa cosa.
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