Cannes 2019 giorno 8, “C’era una volta a… Hollywood”, la rivincita dei gregari
Era il film più atteso del Festival, e probabilmente anche quello dell’anno, C’era una volta a… Hollywood, il nono film di Quentin Tarantino, che uscirà nelle sale italiane il prossimo 18 settembre. Il film che tutti volevano vedere, che ha chiamato a raccolta tutta la stampa accorsa sulla Croisette, costringendo molti accreditati a lunghe code, estenuanti e in molti casi infruttuose, per entrare in sala alla prima, poi alla seconda, infine alla terza replica. Ed è il Tarantino che non ti aspetti quello che promana dal 35mm. di C’era una volta a… Hollywood (sì, il film è originariamente in pellicola), un’opera che sceglie un ritmo più disteso, quasi contemplativo, che si appoggia su tempi dilatati fino allo stremo, su un’azione meno febbrile e dialoghi più stringati, nei quali sono praticamente assenti le battute fulminanti di Pulp Fiction o i grandi monologhi di tante opere precedenti, come ad esempio quello su Superman recitato da David Carradine nel secondo volume di Kill Bill.
C’era una volta a… Hollywood è ambientato nel 1969 e narra la storia di Rick Dalton (Leonardo DiCaprio), star della televisione famoso per la serie televisiva western Bounty Law, che sta tentando di rilanciare la sua carriera, e Cliff Booth (Brad Pitt), che gli fa da stuntman e da autista, “qualcosa di più di un amico, qualcosa di meno di una moglie” – come viene detto a un certo punto del film. Rick vorrebbe cercare nuove strade ma rifiuta la proposta del produttore Schwartz (Al Pacino, un po’ sprecato) di andare in Italia a girare alcuni spaghetti-western, di gran moda nel Belpaese in quegli anni, perché li considera troppo umilianti per la sua fama. La vicenda dei due uomini si intreccia con la tragedia che coinvolse Sharon Tate e Roman Polanski, che la finzione della storia immagina vicini di casa di Dalton, nei giorni che precedono il 9 agosto 1969, la notte in cui l’uccisione della splendida compagna del regista di Rosemary’s Baby da parte della “Manson Family” costituì per Hollywood il punto di non ritorno, una sorta di perdita dell’innocenza, e allo stesso tempo inferse un colpo durissimo al movimento hippie.
E le accoglienze tiepide (per quanto la proiezione cui abbiamo partecipato ha avuto una buona risposta in termini di applausi) e le critiche statunitensi non tutte benevole riservate al film dimostrano come il genio di Knoxville sia un autore capace di reinventarsi, di spiazzare e prendere in contropiede gli stessi addetti ai lavori, troppo frettolosamente pronti a decretarne la morte artistica dopo Jackie Brown (film, peraltro, splendido) o a ridurne la complessa poetica e politica a puro divertissement. C’era una volta a… Hollywood prende dunque le mosse da un momento cruciale della Storia recente, il post-68, momento di passaggio in cui, mentre i soldati muoiono in Vietnam, si sogna un mondo nuovo che subentri a quello esistente, un mondo dove anche la Mecca del cinema attraversa una crisi radicale di sistema e necessita di un lavacro di rigenerazione, peraltro già in atto con i film della “New Hollywood”.
Il nono film di Tarantino è basato per buona parte su una serie di dicotomie: cinema e vita, produzione di serie A e di serie B con la star televisiva Dalton e Roman Polanski, alfiere del cinema d’autore, che vivono significativamente l’uno accanto all’altro senza essersi mai conosciuti o incrociati, il popolare Dalton e il suo doppio Booth, il “cascatore” che si assume i rischi perché un eventuale ferimento del protagonista causerebbe forti perdite di denaro, la realtà e la finzione, che talora si mescolano durante il film in maniera quasi impercettibile. Non a caso, in una delle sequenze più emotivamente coinvolgenti del film, Sharon Tate va al cinema a vedere un suo film, Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm di Phil Karlson, misto di commedia e spy story, in cui l’attrice recita con Dean Martin, e le immagini sullo schermo mostrano ovviamente la vera Sharon Tate, contemplata da Margot Robbie, l’attrice che ne veste i panni nel film che noi stiamo guardando.
Come si può capire dalla sequenza citata, C’era una volta a… Hollywood si presenta dunque come un atto d’amore verso la settima arte, un elogio delle possibilità che essa possiede di riscrivere la Storia e le biografie delle persone, di reinventare la vita e, più di ogni altra cosa, esercitare una vera e propria funzione salvifica. Ma qui Tarantino sembra compiere un passo ulteriore, esaltando il cinema come luogo in cui può verificarsi una sorta di vero e proprio trionfo democratico. Se i film precedenti del regista abbondavano di riferimenti popolari e pulp, di citazioni dal cinema di serie B, spesso italiano, inserite a piene mani nella narrazione o disseminate qua e là in forme di piccole tracce o lampi improvvisi, in C’era una volta a… Hollywood viene abbattuta ogni linea di demarcazione tra “alto” e “basso”, ogni differenziazione tra cinema colto e popolare, ogni confine tra la recitazione da Actors Studio e una performance straordinaria frutto di qualche bicchiere in più. Tarantino omaggia, stavolta citandoli esplicitamente, alcuni registi del western italiano, come Sergio Corbucci o Giorgio Ferroni, oggi riscoperti e parzialmente rivalutati che allora, paradossalmente abbagliati dal mito dell’America, firmavano le loro opere con pseudonimi smaccatamente statunitensi (tra cui Bob Robertson e Anthony M. Dawson, che erano in realtà rispettivamente Sergio Leone e Antonio Margheriti).
Ed è proprio nell’abbattimento di questo muro uno degli aspetti allo stesso tempo più complesso, affascinante e, se si vuole, controverso del nuovo parto creativo di Tarantino: affinché il discorso penetri più in profondità il regista ha bisogno di ricostruire e dilatare, talvolta in maniera estenuante, le sequenze di cinema “basso”, e di mostrare a più riprese (troppe) il mondo da cui provengono Dalton e Booth, rischiando di scivolare in alcuni momenti nel didascalismo e nella saturazione, e di generare nello spettatore una sensazione di straniamento e di sazietà. La potenza di alcune sequenze del film e la consueta raffinatezza della messinscena non bastano, per chi scrive, a sancire una piena adesione, inficiata da una prima ora eccessivamente dilatata, ripetitiva e nel complesso poco efficace e, soprattutto, da un finale discutibile, sotto ogni punto di vista (e che naturalmente non sveleremo).
C’era una volta a… Hollywood è probabilmente il lavoro più intimista e meno immediato del regista, e richiede forse un maggiore sforzo di introspezione, più capacità empatica che adesione istintiva, ponendosi come il viaggio nel tempo di un cineasta romantico, sorpreso nel suo momento di massima nostalgia, un’opera dentro la quale è necessario entrare per osmosi. Tuttavia, l’impressione generale è che questa volta la macchina-cinema tarantiniana sia memo oliata e raggiunga il punto di arrivo del suo discorso con un po’ di fatica, qualche farragine e dopo un’alternanza tra alcuni momenti molto alti e più di uno stridore.
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