Cannes 2019 giorno 10, “The Halt” di Lav Diaz: per amore del mio popolo non tacerò
Siamo nel 2034 e il sud-est asiatico è avvolto nelle tenebre a causa di una serie di eruzioni vulcaniche. Migliaia di persone stanno morendo a causa di un’epidemia mentre quelli che sopravvivono sono schiacciati dai soprusi e dalle angherie del feroce dittatore Nirvano Navarra, che elimina tutti coloro che gli sono d’inciampo facendo regnare nel Paese il caos e la paura.
Chi ha avuto la fortuna e il privilegio di ammirare i suoi ultimi film non può fare a meno di notare un cambiamento di direzione nel cinema di Lav Diaz: il più grande cineasta filippino vivente ha infatti virato verso un cinema che guarda maggiormente ai generi e dove la parola, l’oratoria, cominciano a occupare maggiore spazio rispetto alle assai meno verbose opere precedenti. I generi, si diceva, in quanto il precedente film, Saison of the Devil costituiva un’originale e a dir poco insolita incursione nel musical mentre con The Halt, presentato alla “Quinzaine des Réalisateurs”, Lav Diaz lambisce il cinema di fantascienza ambientando il film in un’epoca futura dove il sole è sparito, forse per sempre.
Sarebbe tuttavia un madornale errore considerare il percorso di uno dei maggiori autori contemporanei come un’involuzione, una concessione, benché minima, alle pressanti richieste dell’industria. Nel rinunciare alle durate fluviali dei suoi lavori precedenti, specie quelli iniziali, e riducendo quella delle inquadrature fisse (sebbene i suoi film continuino a sfiorare e sfondare il tetto delle quattro ore), Diaz sembra spinto dal bisogno di agganciarsi maggiormente alla realtà fino a sfociare quasi nel film di denuncia, nell’invettiva contro un Paese privo di memoria che rischia di passare dalla feroce dittatura di Ferdinand Marcos, deposto nel 1986 in seguito alla rivolta del Rosario, a un nuovo fatale scivolamento nel totalitarismo con il ferale governo di Rodrigo Duterte.
The Halt, uno dei tanti colpi al cuore di questa splendida edizione cannense, mette in scena un Paese totalmente allo sbando nel quale, sotto il controllo occhiuto di un Potere dispotico e spietato, si aggira un’umanità annichilita e incapace di qualsiasi gesto di rivolta, un luogo inospitale dove gli abitanti, spiati per mezzo di droni, sono ridotti a numeri e trastullo per i gerarchi al comando, come la prostituta Hammy, detta “Modello 237”. Intanto, mentre Navarra ha pianificato una pioggia di gas da far cadere sulla popolazione il 9 agosto, giorno dell’anniverso della strage atomica di Nagasaki, alcune persone, contagiate dal clima di ferocia che alberga nel Paese, si eccitano bevendo sangue, mentre qualcuno cerca molto blandamente di organizzare e mettere in atto una rivoluzione.
Il nuovo film di Lav Diaz lavora meravigliosamente sugli spazi e le location, portando lo spettatore in vari luoghi: la residenza del dittatore, l’ospedale psichiatrico in cui si trova rinchiusa anche la madre di Navarra, lo studio di una psicologa, il covo dei rivoltosi, ecc. in una dislocazione che permette una tessitura molto ampia e una narrazione di ampio respiro che non dimentica però di ritornare sempre sulle strade, sferzate dalla pioggia torrenziale, avvolte in un buio che riporta la mente addirittura al classico Blade Runner. Nella sua coralità, The Halt si pone dunque come un lamento, che è allo stesso tempo un canto d’amore, per il popolo filippino e una riflessione sulla drammatica situazione in cui versano le classi più disagiate e socialmente meno protette del Paese. Diaz non si preoccupa di sembrare predicatorio perché il suo obiettivo questa volta è quello di lanciare un invito a reagire, come si vede nel crescendo finale che, se non contempla il ritorno del sole, pare voler inseguire almeno qualche barbaglio di luce, a patto di lasciare in secondo piano i proclami astratti e mettere in campo una serie di azioni capaci di incidere in maniera tangibile, nell’immediato.
Lav Diaz, cineasta dallo sguardo sempre profondamente umanista (meravigliosi i momenti in cui mette in scena i bambini), sembra voler andare oltre la semplice denuncia dello stato delle cose per dare invece qualche suggerimento o esprimere qualche auspicio. Straordinario, inoltre, il modo in cui il regista mette in scena la figura del dittatore che viene caricata di grottesco (si veste da donna, parla con i cactus e lo struzzo del suo giardino, lavora a maglia), smascherato nel suo tentativo di apparire brillante davanti ai giornalisti citando le Elegie duinesi di Rainer Maria Rilke, esaltato come il più grande poeta di tutti i tempi da un uomo che poco prima aveva dato in pasto ai coccodrilli la carne dei suoi nemici.
The Halt è quindi dominato da un forte spirito di denuncia e persino dall’utopistica ambizione di spingere alla lotta e all’azione, partendo però non dai massimi sistemi ma dallo spirito di solidarietà tra le persone, come si vede bene quando Hammy ha finalmente il coraggio di liberarsi dal giogo della schiavitù e di riportare il portafogli alla moglie del vicino, cui lo aveva sottratto quando l’uomo aveva avuto un incidente con la moto. Questo afflato umanistico necessità perciò di un linguaggio cinematografico diverso, di un montaggio un po’ più serrato (per quanto i tempi dell’azione restino comunque dilatati rispetto agli standard del cinema mainstream) e di un maggiore sviluppo dei dialoghi che arrivi a teorizzare un nuovo approccio politico con cui il cinema prova a dare il suo contributo per il recupero della memoria perduta.
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