Un mostro chiamato Uomo – L’incubo della guerra totale
“Naturalmente il nazismo non aveva neppure minimamente sfiorato la vita di Simister, ma aveva esercitato una perniciosa tirannia sulla sua immaginazione. Nella sua mente aveva lentamente preso corpo una sequenza di scene angosciose che avevano continuato a tormentarlo per molto tempo. Tutto cominciava con un rumore rimbombante di stivali e calci di fucile contro la porta ed una frase urlata: «Aprite! È la Gestapo.»”
(Fritz Lieber – L’Espresso per Belsen)
“Cominciò a pensare che Wernecke fosse un vampiro il mattino che andarono alla cava di pietra. Lui, Bruckman, stava chinandosi ad afferrare una grossa pietra quando gli parve di udire qualcosa nel canalone sottostante, Diede un’occhiata e vide Wernecke accoccolato sopra a un musulmano, com’erano chiamati i morti viventi, un nuovo arrivato che non era riuscito a reagire alla terribile realtà del campo.
Hai bisogno di aiuto? – gli chiese a bassa voce.
Wernecke alzò il capo, trasalendo, e si coprì la bocca con la mano, come per ordinare a Bruckman di stare zitto.
Ma Bruckman era certo di aver scorto, in un lampo, del sangue sulle labbra di Wernecke”.
(Gardner Dozois e Jack Dann – Tra gli uomini morti
A cavallo delle guerre mondiali il racconto dell’orrore subisce una serie di mutamenti che riverberano le inquietudini dell’uomo contemporaneo e lo spettro delle atrocità commesse in questa fase della sua storia. Il primo conflitto mondiale insanguina il mondo occidentale e vi pianta semi maligni da cui sorgeranno regimi totalitari e i prodromi di un conflitto ancora più atroce. Vi sono autori americani ed europei che partecipano alla Grande Guerra, in qualche caso a prezzo della vita, mentre invece H. P. Lovecraft, che viene riformato alla visita di leva e non può partire come avrebbe desiderato, utilizza gli eventi bellici come spunto e sfondo di molte delle sue prime opere.
Il suo corrispondente e discepolo Fritz Leiber è stato senza alcun dubbio, uno degli autori fantastici del Novecento più sensibili e attenti ai mutamenti della società. In un certo senso la riflessione sulle tragedie umanitarie è presente, en passant, già nel suo fondamentale racconto Fantasma di fumo (1941), quando menziona tra gli spauracchi dell’uomo moderno che hanno soppiantato i vecchi spettri della letteratura gotica “Il terrore attonito del cittadino borghese dopo un bombardamento”. Lo sconvolgimento degli equilibri mondiali e l’incombere di conflitti di portata immane per l’umanità è l’elemento che aleggia sul racconto (che pure ha un sapore molto lovecraftiano e si può considerare una storia di “orrore cosmico”) I sogni di Albert Moreland (1945), storia di uno scacchista ossessionato da incubi in cui gioca la sua partita su una scacchiera molto più grande del normale, con pezzi e regole astruse: in questa immagine si può leggere un’allegoria del mondo moderno e le assurde guerre che lo devastano. Sono racconti scritti negli anni in cui effettivamente la seconda guerra mondiale infuriava nel suo pieno, anche se molte notizie sui campi di concentramento e i piani di sterminio nazisti dovevano ancora trapelare o erano appena state scoperte.
Ma Leiber, peraltro di origini ebreo-tedesche, molti anni dopo ha dedicato al tema dell’Olocausto il racconto L’Espresso per Belsen (1975). Esso, riletto oggi, ci rimanda a una società in fondo non troppo diversa, nell’ambiguità del suo rapporto con l’Olocausto, da quella di oggi, se non per il fatto che la televisione era forse all’apice della sua popolarità e diffusione come mass media (oggi ormai soppiantata dalla Rete). Il protagonista George Simister osserva alla TV le notizie sulle rivolte sociali e le brutali repressioni militari che avvengono nell’Est Europa e in altre aree del mondo, e si ritrova con i suoi conoscenti a intavolare discussioni in cui, come una coazione a ripetere, ricorre l’argomento del nazismo. Nella sua apparente tranquillità di cittadino americano post bellico che si ritiene al sicuro dall’incubo della persecuzione, della deportazione e dello sterminio, cova un disagio che riflette un rapporto ambivalente verso le atrocità dell’Olocausto, da cui sembra terrorizzato ma al contempo affascinato, e questa ossessione latente crescerà fino a entrare tangibilmente nella sua realtà.
Robert Bloch, anch’egli corrispondente e adepto di Lovecraft, ha scritto numerosi racconti dell’orrore puro ambientati o collegati ai conflitti mondiali. In Figurine dell’orrore il trauma dei bombardamenti sul fronte francese è l’elemento scatenante della frammentazione dell’io del Dottor Colin che in conseguenza di ciò riesce ad animare, trasferendovi piccoli frammenti della sua energia vitale, i fantocci di argilla che modella nel manicomio in cui è stato rinchiuso. Il racconto Il carnefice è ambientato invece nella Berlino del 1937, in cui la follia di onnipotenza dei gerarchi fa apparire banale ogni eccesso di crudeltà ed efferatezza. Il protagonista è un boia che si occupa di giustiziare con la decapitazione i traditori del regime. Nel delirio di onnipotenza che sembra contagiare tutti, il boia Krantz sviluppa un rapporto morboso con le teste delle sue ultime vittime, due sospetti adepti della magia nera, arrivando a compiere qualsiasi efferatezza pur di procurarsi clandestinamente ciò che brama. Pagherà per il suo gesto, in un epilogo che sta a metà tra macabro scherzo del destino e l’avverarsi dell’anatema lanciatogli dai suoi prigionieri. Bloch ci ha dato inoltre alcuni memorabili racconti in cui affronta il tema della paura della Terza Guerra Mondiale e dell’Olocausto Nucleare.
Il racconto I lupi affamati della steppa, scritto nel 1968 da John Wysocki, è una storia di licantropi dall’ambientazione decisamente atipica ma efficacissima: il fronte russo della prima guerra mondiale. Nella Russia rurale della steppa, tra il retaggio di superstizioni medioevali e i fermenti della rivolta bolscevica, la difficile situazione di stallo della guerra contro l’esercito tedesco ha fatto regredire i pur duri combattenti cosacchi a uno stato bestiale; tutto sfocia in una violenta diserzione che fa apparire le atrocità più efferate cosa ordinaria, in cui conta solo soddisfare i bisogni primari e le pulsioni più animalesche. In questo contesto il disertore Starnakov vive un’animalesca relazione con la misteriosa zingara Zuleika, che si rivelerà una creatura spaventosa a metà tra due mondi. Privo di espliciti sotto-testi politici, questo breve racconto trova tuttavia il suo epilogo, significativamente, in un gulag in prossimità del circolo polare artico.
A metà degli anni ’70 del Novecento riscuote molta popolarità, anche grazie a una trasposizione cinematografica di scarso successo alla sua uscita ma poi rivalutata, il romanzo La fortezza di F. Paul Wilson, ambientato sul fronte rumeno. Una misteriosa forza perseguita, decimandolo, un comando di SS stanziato presso delle antiche rovine. Una entità potente e malvagia cerca di entrare nella nostra dimensione e solo un predestinato immortale, custode designato per la salvezza del mondo, può impedirglielo. Nella trasposizione cinematografica il confronto tra il gerarca nazista e la misteriosa entità esplicita ancora più che nel libro il seguente concetto: il male che cerca di fare ingresso nel mondo trova la sua genesi nell’animo umano, ed è direttamente collegato con la brutale dottrina della distruzione su cui si fonda il Terzo Reich. Il tema della crudeltà dell’occupazione nazista dell’Europa dell’est ha continuato a ispirare racconti soprannaturali anche oltre il Ventesimo Secolo: il racconto La ragazza dal cappotto blu (2013) di Anna Taborska è una storia di fantasmi dal sapore malinconico. Essa ci catapulta, attraverso le parole di un anziano e morente reporter di guerra, nel dramma di un villaggio polacco decimato dalle deportazioni naziste, e raccontando l’amicizia tra due ragazze che l’orrore della guerra spezzerà crudelmente.
Liverpool è stata una delle città inglesi più profondamente segnate dai bombardamenti della Wehrmacht. Ramsey Campbell attinge a questa ferita sepolta nella memoria storica della sua città per il racconto Seconda vista, in cui il trauma infantile del bombardamento aereo che ha causato la cecità del protagonista riecheggia negli inquietanti fenomeni che lo perseguitano nel presente, forse collegati a una macabra fatalità (il bombardamento aveva colpito il cimitero a poca distanza dalla sua casa d’infanzia).
Stephen King ha dedicato ai fantasmi dell’Olocausto il celebre racconto lungo Apt Pupil (tradotto in italiano come Un ragazzo sveglio), che non ha alcun elemento fantastico o soprannaturale ma può considerarsi un “horror psicologico”, e narra del rapporto morboso di un teenager americano con un anziano gerarca delle SS da lui riconosciuto casualmente. Anziché denunciare il vecchio, lo ricatta per scoprire di più sul nazismo e i lager attraverso i suoi racconti. Questa storia di King affronta il tema della seduzione subdola del male: mentre il giovane resta sempre più plagiato e irretito dai racconti del nazista finendo in una spirale di follia con escalation di violenza nel finale, il vecchio rivivendo il passato scopre di nuovo il piacere dell’infliggere morte e sofferenza.
L’inferno dei lager resta uno degli argomenti più sofferti e delicati di questa pagina storica, e chi decide di affrontarlo in un’opera di fiction per molto tempo si è dovuto confrontare con un vero e proprio tabù. Jane Yolen, autrice nella cui opera ricorrono spesso temi legati alla memoria storica della cultura ebraica, con il racconto Nomi scrive una storia sottilmente perturbante e ambigua in cui il tema della Shoah si fonde con quello dell’anoressia: la memoria dei nomi delle vittime dell’Olocausto è una sorta di mantra per preservare l’identità di un intero popolo, ma il trauma della continua rievocazione di questo lutto collettivo si ripercuote sulla psiche di un’adolescente, causandole fatali disturbi alimentari. Suscitò polemiche il racconto Tra gli uomini morti, di Gardner Dozois e Jack Dann, in cui viene descritto un vampiro mescolato ai prigionieri di un lager. Attraverso l’elemento fantastico presente nel racconto, come gli autori hanno spiegato successivamente, vi era in realtà il desiderio di indagare in modo impietoso sulla disumanizzazione in cui venivano ridotti i prigionieri, nei quali veniva scientificamente represso ogni naturale spirito di mutua solidarietà, spingendoli a cercare di sopravvivere a scapito dei compagni di prigionia. Le parole del post scriptum di Jack Dann sono particolarmente esplicative:
“Per la verità il vampiro è un’orrenda metafora. Sarebbe stato accettato molto meglio se noi avessimo reso vampiro uno dei nazisti. Ma forse testimoniando, prendendo dei rischi, sporgendoci oltre il limite di ciò che potrebbe essere interpretato come “cattivo gusto, noi possiamo mantenere viva la memoria di quanto accaduto. Ma come ha detto il filosofo George Santayana“: “Coloro che non possono ricordare il passato, sono condannati a ripeterlo.”
Dio, impediscilo.