Prima pagare, poi Pazienza
Scrivere su Andrea Pazienza, per chiunque abbia seguito in tempo reale la sua parabola artistica, significa inevitabilmente fare i conti con la propria storia personale, tanto il lavoro del grande disegnatore resta intrecciato al nostro percorso.
Qualsiasi giovane della metà degli anni ’70, impegnato o no, aspirante fumettista o meno, deve essersi di certo imbattuto nelle tavole di Pazienza. E come ogni altro lettore non può non esserne rimasto folgorato ritrovandovi il proprio tempo, il proprio habitat di studente, i miti e gli incubi dietro l’angolo.
Dov’ero? Verrebbe da chiedersi oggi. Cosa facevo quando uscivano i suoi primi lavori?
Perché il teatrino grottesco di Pazienza conteneva in sé il mondo fuori dal foglio, molto più di un reportage giornalistico.
Come un 11 settembre del fumetto, altrettanto inaspettato ed emblematico, Paz è stato una linea di confine tra epoche contigue ma fatalmente inassimilabili. Il suo segno inciso nella memoria collettiva ha fotografato una realtà, riproducendone in modo spietato eroismi, miserie e sogni, tracciando di questi ultimi un diario onirico più vero del vero, attraverso le avventure lisergiche di Pentothal.
Indocile, immaginifico, politico figlio del ’77, sperimentale, analitico, a volte genialmente cialtrone, Pazienza è idee. Pazienza è stile. Pazienza è massimo dramma congiunto a massimo divertimento. Le linee narrative della sua strabordante produzione diramano in un ventaglio di linguaggi, tutti accomunati dal virtuosismo grafico che è stato il suo marchio di fabbrica, accompagnato quasi sempre dalla naturale propensione all’umorismo, uno strumento-grimaldello con cui scardina ogni schema facendone deflagrare i meccanismi interni.
Penna e marker, testo e immagine, camminano sempre insieme in Pazienza spalleggiandosi in una lingua personalissima, fatta di contrasti e citazioni, eleganti volgarità e altri ossimori agrodolci risolti sempre in scioltezza, senza sforzo, grazie a una felicità affabulatoria pari solo alla felicità del disegno.
Sulla propria maestria spontanea lui stesso ironizzava così sulle pagine di Alter: la Natura, raffigurata da un albero deambulante in impermeabile e occhiali scuri, bussa alla porta di casa Pazienza tenendo un pacco tra i rami. Alla consegna del dono la scatola si apre liberando un turbine che va ad avvolgersi al braccio di Andrea. Successivamente, vediamo la mano destra camuffata da burattino-pittore che insegna a un annoiatissimo Paz come fare “i righi dritti” sulla tela.
Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere davvero andata così.
Più realisticamente, la sua biografia ricorda la presenza di un padre docente di disegno (ed eccellente acquerellista), oltre un precocissimo talento che il nostro sfodera a 18 mesi producendo i suoi primi schizzi di animali. Esasperazione leggendaria? Tutt’altro, la retrospettiva napoletana di Città della Scienza lo conferma nel ’99, esponendo dei bozzetti realizzati con mano più che sicura a soli cinque anni.
Cose d’A. Paz.
Cercare un’origine, un’influenza formativa dello stile di Pazienza è dunque un’impresa ardua, imperniata su di una singolarità che teme pochi confronti. Pochi anni prima delle sue prime pubblicazioni, usciva in Francia la rivista “Metal Hurlant”, destinata dal ‘74 in poi a portare una rivoluzione significativa nel mondo dei comics con i lavori di Druillet, Moebius (Jean Giraud), Caza. Ciononostante, persino l’artista accostato più di frequente a Pazienza per inventiva e similitudini stilistiche ha attraversato un suo iter evolutivo, smarcandosi dalle orme del suo maestro Jijé (Joseph Gillain) e passando dal realismo del western Blueberry ai deliri sbrigliati di Arzach o del Garage ermetico di Jerry Cornelius.
Per una forma di partenogenesi estetica, Paz invece non ha avuto mentori o derivazioni riconoscibili, ma solo affinità elettive che lo imparentano ad altri autori dai quali non c’è una diretta derivazione. Gli è sicuramente affine lo spirito di riviste controculturali come Zap Comics, dei cui esponenti Robert Crumb e Gilbert Sheldon condivide l’oltraggiosità della trasgressione, acida e surreale. Non è un caso, infatti, che diversi altri autori underground, da Greg Irons a S. Clay Wilson, vengano pubblicati in Italia da Cannibale, rivista di cui Pazienza è uno degli animatori insieme a Scozzari, Tamburini, Mattioli e Liberatore.
Su un fronte d’ispirazione meno estremo, segnato dal gusto del grottesco e dalla libertà d’invenzione che scivola nell’assurdo, possiamo ritrovarvi – con le debite distanze – anche le demenziali creazioni di Don Martin, una delle colonne della rivista satirica Mad, e infine l’immenso Jacovitti. Jac e Paz, infatti, pur provenendo da mondi e culture lontane tra loro anni-luce, condividono la stessa vena di follia che anima le proprie tavole, riempiendole con naturalezza di paradossi e trovate spiazzanti.
È una questione di DNA. Che si tratti di cow-boy che bevono camomilla, oppure di sgangherati fricchettoni all’inseguimento di una dose di ero, la totale diversità, la non assimilabilità alle regole del gregge rendono Cocco Bill o Jack Mandolino non meno outsider del Tenente Stella di Aficionados.
A dare forza a questo bestiario fantastico c’è la potenza iconografica di un disegno personale, duttile, in grado di far convivere naturalezza, tridimensionalità e dinamismo con la deformazione caricaturale più esasperata. A ciò si unisce l’uso di una lingua continuamente reinventata, ricca di neologismi e forme dialettali storpiate, alternate a una prosa poetica che affiora contrastando le situazioni più trash.
Nella misura della vignetta o del racconto breve, Pazienza è maestro di sintesi ed efficacia, gli basta uno spunto per intavolare storie-arcobaleno dove tutto parte da un quadro fisso che diventa palcoscenico di un anarchico accumularsi di eventi. Ne sono esemplari gli sketch dei suoi eroi tossici apparsi su Cannibale, come i deserti di E per me un Anco Marzio o quello di Ma cosa succede, dove si consumano farse in pieno stile underground (con tanto di accento meridionale).
Gli strafattoni di cui descriverà il lato tragico e realistico in Pompeo, sono dei clown ricorrenti di racconti e vignette, contrapposti alla loro antitesi autoritaria costituita da macchine idiote al servizio di un sistema che non comprendono, vedi poliziotti o genitori altrettanto ottusi. C’è il celerino che manganella il giovane raggomitolato a terra dicendo “Acchì dici facciadiculo, eh? Chiedi scusa! Chiedi scusa!”, mentre da fuori campo giunge la preghiera “Su Virgilio, chiedi scusa a papà che è pronta la cena!” Ancora più sintomatica è la vignetta senza parole in cui due figure a capo chino si fronteggiano pranzando, una in canottiera, baffetti sottili e stempiatura, l’altra in T-shirt e zazzera lunga, entrambe identiche, entrambe, sia padre che figlio, consumate dal medesimo, sordo disgusto dell’altro.
Lo scenario urbano è un ulteriore topos delle tragicommedie pazienziane, uno zoo di nevrosi dove le patologie personali s’intrecciano ad appetiti sessuali sempre parossistici, frustrati e destinati alla catastrofe. Difficile non farsi trascinare dalle sventure del protagonista de L’appuntamento, giovane “sbarbo” alle prese con un incontro galante funestato da un mix di gaffes, spacconate, spinelli magnum e conseguenti miserie corporali. Altrettanto esilarante è la sorte dello sfigato de Il segno di una resa invincibile, il cui appartamento è messo a soqquadro da due losche amiche che gli devastano la vita e la macchina, non prima di averlo (consensualmente) legato nudo e genuflesso a un termosifone.
Senza risparmiare nessun obbiettivo, Pazienza utilizza infine anche se stesso come materia prima, rendendosi oggetto di satira attraverso stralci di autobiografia che ne enfatizzano la statura di anti-mito.
In Figure storiche snocciola con disinvoltura in tavole di grande comicità dei ricordi giovanili imbarazzanti al limite dell’autolesionismo, mentre la Prolisseide – Tutti gli uomini importanti che mi hanno conosciuto è una galleria di incontri con uomini illustri da Pratt a Moravia, capovolta dal sottotitolo in una contro-epifania, come il Carmelo Bene di Sono apparso alla Madonna.
Paz il talentuoso, Paz il narciso, Paz il pigro, ama inoltre ammantarsi di un alone (difensivo) di venalità, che esibisce per prendere a fil di spada i suoi referenti editoriali. Lo ricorda il celebre motto “Prima pagare, poi disegnare”. Su questa falsariga Filippo Scòzzari ne dà un immagine al vetriolo nell’introduzione del sopracitato albo Aficionados del ‘82. In “Ritratto dell’artista come un giovane salvadanaio”, il collega bolognese tratteggia l’amico definendolo così: “cromosomicamente affamato di caldi paltò, costosi dentifrici, ed esotici calzini inglesi, e dunque incontenibile nella forma storica del suo chiedere, chiedere sempre e comunque, a tutti.”
Un autentico Zorro della carta stampata.
In tempi come questi, in cui lo sfruttamento del lavoro intellettuale è più che mai una norma, c’è da augurarsi che dovunque sia Andrea qualcuno lo stia prendendo molto sul serio.