“Tabu” di Miguel Gomes. Il cinema non è morto: è solo passato
Un prologo e due atti. Il primo è una sorta di mise en abyme di quanto si vedrà nei secondi (intitolati rispettivamente “Paradiso perduto” e “Paradiso”), una sorta di riassunto in chiave mitica della storia che verrà raccontata. Presentato in concorso al Festival di Berlino 2012 dove, l’anno del trionfo dei fratelli Taviani con il bellissimo Cesare deve morire, si è aggiudicato il Premio FIPRESCI e il Premio Alfred Bauer, Tabu è un film straordinario, per il quale una volta tanto forse la definizione di capolavoro non sarebbe eccessiva.
Eppure la storia principale è il più classico dei melodrammi e ubbidisce ad un canovaccio utilizzato fino allo sfinimento che si potrebbe riassumere nel modo seguente: una donna sposata attende un figlio dal coniuge ma si innamora perdutamente di un altro uomo. Complicazioni.
Che cosa riscatta allora uno degli schemi più logori che il cinema e soprattutto la narrativa conoscano? Ciò che rende Tabu uno dei film più belli e importanti degli ultimi anni è la sua meraviglia estetica, la precisione con la quale il regista costruisce il film scena per scena, inquadratura per inquadratura, senza mai un movimento di macchina fuori posto, in bilico ma sempre “al di qua” del baratro del puro esercizio di stile cinefilo e autoreferenziale. Perché è soprattutto un film sul cinema, Tabu, clamoroso film-testo, impregnato di riferimenti ed omaggi alla storia della settima arte. A partire dal titolo dell’opera e dal nome della protagonista, Aurora, entrambi mutuati dal cinema di Murnau e poi da quella data, 28 dicembre, una delle prime didascalie che accompagna tutta la narrazione. Non possiamo pensare infatti che Miguel Gomes abbia scelto a caso quel giorno, che coincide con la prima proiezione in pubblico da parte dei fratelli Lumière, momento che segna convenzionalmente la nascita del cinematografo. E poi tutto il secondo atto, privo di parole (operazione rischiosissima e coraggiosa), eccezion fatta per la voce over del protagonista, che è tutto un omaggio al cinema delle origini, ai silent movie strappalacrime che commuovevano le prime folle di spettatori.
Opera colta e raffinata, tecnicamente sofisticata e ricca di invenzioni visive e narrative, impreziosita da una fitta rete di citazioni, richiami e rime interne, Tabu non disdegna però alcune strizzatine d’occhio ad un universo popolare e all’utilizzo di elementi più universalmente riconoscibili: la costituzione della rock-band di Mario, amico del protagonista, il ricorso insistito al classico della musica pop Be my Baby delle Ronettes, che si ascolta sia nella sua versione originale che nella cover spagnola e, naturalmente, la storia d’amore che riempie tutta la seconda parte.
In questo suo fare continuamente la spola tra passato e presente, il terzo film di Miguel Gomes, autore che, a partire da questo esito, si è ormai avviato ad avere un ruolo-guida nel futuro prossimo venturo della settima arte, è cinema alto, nutrito di fervida ambiguità: realizzare opere nuove con materiali vecchi (o, se si preferisce, “antichi”), in perfetto equilibrio tra l’omaggio ossequioso e la reinvenzione d’autore, facendo una sorta di “shackeraggio” di tutto il cinema possibile. E, come i prigionieri nella Caverna di Platone, anche a noi spettatori non resta che guardare riflettersi sullo schermo queste ombre ormai passate, ma sempre presenti.
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