“Mulholland Drive” di David Lynch: il regista e il veggente
È tutto registrato. È tutto un nastro. È solo un’illusione.
Mulholland Drive
Nella sua famosa lettera a Paul Demeny, scritta nel maggio 1871, Arthur Rimbaud descriveva la figura del Poeta che doveva farsi Veggente attraverso “una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi”. La lingua del Poeta, secondo l’autore di Une saison en enfer, doveva riassumere tutto: “profumi, suoni, colori, pensiero che aggancia e tira il pensiero”. Riassumendo un po’ brutalmente, possiamo dire che Rimbaud auspica, preconizza e mette in pratica un tipo di arte in cui al sensibile viene dato un netto sopravvento nei confronti del cognitivo.
Mulholland Drive (2001), capolavoro assoluto che apre non a caso il nuovo millennio, è per certi versi proprio il film di un cineasta-veggente, il terzo capitolo di quella che può essere considerata una tetralogia dell’inconscio costituita inoltre da Eraserhead (1977), Lost Highway (1997) e il successivo Inland Empire (2006). Buona parte del lavoro cinematografico e televisivo di David Lynch (basta pensare a I segreti di Twin Peaks), diretto discendente del surrealismo, è una sorta di scommessa e di patto che l’artista instaura con lo spettatore, al quale viene richiesto un sovrappiù di attenzione ma soprattutto la capacità di uscire da se stesso per condividere il disorientamento e lo sbalordimento di cui sono intrisi i personaggi dei suoi film, avvolti in atmosfere perturbanti, e risucchiati dentro misteri che li attirano come una calamita.
Per essere chiari ed espliciti, Mulholland Drive è uno di quelle opere al termine della cui visione lo spettatore è portato ad ammettere, in maniera persino risentita, di “non averci capito niente”. E il regista, fin dall’uscita del film, si dimostrò tutt’altro che propenso a sbrogliare la matassa. Nel 2002, infatti, fornì al quotidiano “The Observer” un elenco di dieci indizi a suo dire utili a comprendere la storia ma che in realtà rendevano la faccenda ancora più oscura e misteriosa, presentandosi come un ennesimo stratagemma teso a sparigliare le carte. Per chi se lo stesse ancora chiedendo, diciamo che la fabula di Mulholland Drive è più o meno riassumibile come segue: una giovane donna, Diane Selwyn, arriva ad Hollywood per fare l’attrice, e si innamora di Camilla Rhodes, un’altra attrice che ha più successo di lei. Camilla ricambia inizialmente il sentimento di Diane; poi la tradisce con un giovane regista con il quale convola addirittura a nozze. Per vendicarsi, Diane fa uccidere Camilla da un killer. Dopodiché Diane fa un lungo sogno, che riempie tutta la prima parte del film, in cui rivive a parti invertite (con tanto di scambio di nomi) la sua avventura sentimentale con Camilla in una serie di transfert, mutamenti di personalità, spostamenti e visite a uno strano locale, il Club Silencio, finché, sconvolta dai sensi di colpa, finisce per togliersi la vita.
Ristabilita per la gioia di molti la logica narrativa, c’è però da dire che Mulholland Drive, ad avviso di chi scrive, può fornire invece un godimento molto maggiore se si rifugge dalla smania dell’interpretazione a tutti i costi e ci si lascia trasportare, secondo un approccio che potremmo definire modernista, dal flusso ininterrotto delle immagini, dal coacervo delle suggestioni, dai lampi onirici, dallo sguardo abissale che il regista è capace di infondere alle varie sequenze, dall’emozione palpitante di molte scene dominate da un magistrale utilizzo della suspense, che porta il film a sfiorare i territori del migliore cinema horror.
Insomma, l’invito è quello di dar retta a Rimbaud, di “entrare” nel film lasciando liberi i propri sensi, e abbandonandosi al puro piacere estetico perché questo film è una di quelle opere che restituiscono al cinema quel privilegio di essere un’arte soprattutto visiva (e uditiva). Tra l’altro, se è vero che Mulholland Drive è, tra le molte cose, un film su (contro) Hollywood, che analizza le conseguenze delle ambizioni frustrate che sfociano dentro la Mecca del cinema, probabilmente è proprio attraverso lo sgretolamento della messa in scena tradizionale che l’opera di Lynch raggiunge il suo apice trasgressivo. Perché mai come in questo film, uno dei più grandi mai realizzati sul tema del doppio, la “fabbrica dei sogni” si trasforma nel suo contrario e non è capace di produrre nient’altro che incubi. Il resto è…Silencio.
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