‘For In Your Tongue, I Can Not Fit’. Alla Biennale di Venezia, Shilpa Gupta inchioda i versi dei poeti perseguitati
All’Arsenale di Venezia, in uno dei padiglioni in cui sono esposte le opere di numerosi artisti provenienti da diversi paesi, Shilpa Gupta ha liberato la voce di cento poeti. Mentre in una sala dei Giardini della Biennale un cancello semovente sbatte da una parte all’altra contro una parete su cui sono evidenti i solchi scavati dai drammi privati che si ergono a testimonianze di tragiche violazioni, nello spazio all’Arsenale l’artista indiana compie la sua rappresentazione della voce. Anzi, delle voci. Quelle di cento scrittori (Liu Xia, Habib Jalib, Irina Ratushinskaya, Zanele Muholi, Chitra Ganesh, Rana Hamadeh, solo per citarne alcuni) qualcuno reduce da carcerazioni e persecuzioni, altri scomparsi o vittime di esecuzioni. I caduti del sopruso politico schierati in formazione. Presenti in assenza, attraverso la verbalizzazione dei loro pensieri e dei loro sentimenti. I loro scritti dentro un luogo libero, in perpetuo ammonimento di quanto questa parola, libertà, possa scontare prezzi altissimi.
For, in your tongue, I cannot fit è il titolo dell’opera della quale file di supporti metallici terminano con un chiodo su cui sono conficcati un foglio con sopra stampati i versi di un poeta. Dal soffitto, sopra ogni foglio scendono dei microfoni che diffondono la lettura (in inglese, hindi, urdu, azero, cinese, spagnolo, turco) di questi versi, ottenendo, così, un grande recitativo collettivo in cui le parole di diverse lingue si rincorrono intrecciandosi in una struggente e polifonica litania in nome della letteratura adoperata da questi autori per consegnare al mondo non soltanto il grido della disperazione, ma soprattutto il prezioso patrimonio di quella sofferenza vissuta sfuggendo, in fondo senza riuscirci, alla perpetrazione del male in nome del potere e delle sue spietate affermazioni.
Shilpa Gupta, nata a Mumbai nel 1976, preferisce non essere classificata in un ruolo preciso nell’ambito artistico, temendo che un tipo di attribuzione possa cambiare una volta trasferita nel mondo dell’arte. “La mia pratica è molto fluida. Lavoro con materiali del quotidiano. Uso suono, disegno, fotografia, video, scultura, performance. Non c’è una materia o una tecnica che prevalga sull’altra” ha dichiarato una volta l’artista indiana.
Il titolo dell’istallazione esposta alla Biennale è ispirato ai versi di Imadaddin Nasimi, poeta turco di lingua azera, vissuto tra la seconda metà del XIV secolo e i primi anni del XV. Al di là delle notizie biografiche incerte, la figura di Nasimi resta significativa soprattutto per il drammatico destino a cui, secondo alcune fonti, pare sia andato incontro il poeta turkmeno, punito con la condanna a morte ad Aleppo da parte delle autorità religiose, a causa delle sue idee ritenute blasfeme. Sulla sua vita è stato anche girato un film intitolato Nesimi, prodotto dalla Azerbaijanfilm nel 1973.
La funzione dell’opera di Shilpa Gupta non cede, però, alle lusinghe strumentali di quella retorica che talvolta si posa sopra i drammi per specularne l’evocazione emotiva. La rappresentazione dell’artista asiatica, non nuova all’adozione di questi linguaggi, si sofferma sulla semantica della separazione, dei confini, della costrizione e della violazione. La violazione come elemento identitario delle culture repressive. Una critica alla rete di segni che persegue una pratica della distinzione tra gli uomini contaminandola con ambiguità condotte da parole subdole e concetti armati nelle mani del potere.
Come si legge dalla nota introduttiva pubblicata sul sito ufficiale della Biennale di Venezia: “Shilpa Gupta si concentra sull’esistenza fisica e ideologica dei confini, svelandone le funzioni arbitrarie e insieme repressive. La sua pratica attinge alle aree interstiziali tra Stati-nazione, alle divisioni etnico-religiose e alle strutture di sorveglianza, tra i concetti di legale e illegale, appartenenza e isolamento. Le situazioni quotidiane vengono distillate in gesti concettuali concisi, sotto forma di testo, azione, oggetto e installazione attraverso cui Gupta affronta i poteri impercettibili che regolano le nostre vite in qualità di cittadini o di individui apolidi.”
In un ambiente che, complice le lievi quanto penetranti luci fioche e vibranti, sembra riprodurre una cromatica della carcerazione, i fogli piantati sopra i chiodi formano una crocifissione verticale sopra un piano su cui non compaiono gli arti, ma fanno incursione i suoni provenienti da un luogo che non è soltanto quello dell’istallazione. Le pagine inchiodate sembrano avvolgersi al ferro in una traforazione che intorno al loro buco ferita, paradossalmente, pare afferrarsi, avvolgendo la carta in un intorno perpetuamente sofferente. Una condizione in-dolore, in cui il corpo carta è una parola che col metallo unisce un pensiero unico che tiene legati tutti i cento poeti rappresentati da quella corale reduce dalle carcerazioni e dalle repressioni. Eppure, qualcosa di quelle esperienze non ha abbandonato la cella. Gli autori appartengono a epoche diverse. Liberati, fuggiti, scomparsi, condannati. Qualunque sia stato il loro destino, qualcosa di ognuno di essi è rimasto nel confino che l’autorità aveva loro imposto ingiustamente.
Un’inevitabile frammentazione ha sedimentato gli elementi della vittima e del carnefice. Prigioniero e secondino si tengono compagnia in un’intimità che aleggia tra i microfoni collocati a perpendicolo sopra i fogli che nell’istante di osservazione operano un inganno. Quel lungo chiodo è soltanto l’arma della condanna, lo strumento a cui, anche disperatamente, qualcuno ha consegnato le sue parole, o potrebbe anche aver trafitto il foglio mentre era in sospensione? La carta è caduta sopra il chiodo o il chiodo è salito a perforarla? L’incontro dei due elementi è avvenuto secondo quale verso? Quale polarità regola l’immagine? Si sono scagliati l’uno contro l’altro? Si sono rincorsi? Quale ragione di spostamento ha stabilito quel contatto doloroso?
Nell’opera di Gupta lo strumento del microfono si elegge a funzione inversa, facendo sì che l’emissione vocale e la traccia sonora provengano dal luogo che raccoglie la voce per destinarla all’amplificazione. In questo caso, invece, il suono, partito da una fonte non visibile, fuoriesce dai microfoni aperti davanti alle labbra immaginarie delle poesie stampate sulle pagine inchiodate e poste in orizzontale. L’adagio mortale contempla lo strumento di vocalizzazione come un punto ascensionale che fa da riferimento per una preghiera che è monito manifestante. Una terribile sublimazione, insistente e militante, bisbiglia un sussurro corale da un oltretomba da cui preme un pensiero vivissimo.
Le immagini di copertina e quelle interne sono tratte da www.kochimuzirisbiennale.org e baku-magazine.com