I sonetti a Orfeo di Rilke e quella dedica a Wera Knoop e a se stesso

Wera Ouckama Knoop è nella dedica che Rainer Maria Rilke ne I sonetti a Orfeo riserva tanto alla sua destinataria quanto a se stesso. “Monumento funebre alla memoria di Wera Ouckama Knoop”. La prima lettura di questa incisione lapidare sulla prima pagina dell’opera scritta dal poeta austriaco nel 1922 procura una chiave mentale per l’accesso a un luogo in cui per prima, probabilmente, deve restare custodita la tragica potenza che ha scandito il corso della vita di quella donna a cui è dedicata l’opera. La solennità di Rilke prescrive il dovere a un doloroso silenzio all’ingresso dei suoi venticinque componimenti poetici. Un omaggio in soglia di sé e del ricordo sacro della figura alla quale Rilke indirizza la sua epigrafe intima e accorata.

“Geschrieben als ein Grab-Mal für Wera Ouckama Knoop”

Wera Ouckama Knoop, nata nel 1900 e figlia dello scrittore tedesco Gerhard Ouckama Knoop, che sarebbe morto, poco più che cinquantenne, tredici anni dopo la nascita della figlia. Gerhard, uomo colto e amico di importanti autori della letteratura tedesca, come, per esempio, Thomas Mann, aveva fatto parte di quella generazione di scrittori che avevano contribuito alla rielaborazione del romanzo nella narrativa tedesca tra il XIX e il XX secolo. Grazie alla figlia maggiore di Rainer Maria Rilke, amica della figlia di Gerhard, Wera frequenta la casa di Rilke. Le loro famiglie sono amiche e Rilke, poco a poco, nota il talento di Wera nel campo artistico. Dapprima abilissima disegnatrice, poi agile e talentuosa ballerina, a tal punto da diventare membro permanente del corpo di ballo dell’Opera di Berlino. Dopo aver debuttato all’età di diciotto anni in una parte importante, Wera mostra una certa propensione anche per la letteratura. Oltre all’esercizio della danza, del disegno e del pianoforte, la giovane ragazza amica di casa Rilke scrive anche dei brevi componimenti poetici. La sua vita sembra destinata al successo e a un intenso percorso artistico, fino a quando, però, la mano di una lenta e inesorabile tragedia la spinge verso un triste destino.

Durante le prove di un balletto Wera accusa un dolore a un piede. All’inizio, anche rassicurata dal suo maestro, si pensa si sia trattato di un infortunio o di un passo errato che le abbia potuto procurare un lieve fastidio fisico. Su suggerimento proprio del suo maestro, la ragazza torna a casa per riposare, tranquillizzata che il giorno dopo tutti l’avrebbero aspettata per riprendere gli esercizi di danza. Wera a quelle prove non tornerà più. Quel dolore al piede è la prima manifestazione di una rara forma di leucemia. La malattia colpisce i suoi piedi e le sue gambe, costringendola ad abbandonare la danza. Allora, senza perdersi d’animo, Wera Knoop si dedica al pianoforte, riproducendo la musica dei balli che avrebbe dovuto danzare se non fosse stata costretta a smettere. Per lei quella è l’unica strada per non smarrire il contatto interiore con quel mondo che il talento le aveva spalancato e una tremenda malattia le aveva sbarrato.

Quel male, però, non contento, inizia a diffondersi anche nelle braccia della povera ragazza, impedendole pure di poter suonare il pianoforte. A Wera non restano che le mani e le dita. Ancora funzionanti, le usa per disegnare tutto quello che è parte della sua breve esperienza di ballerina. Le compagne di danza, le scene, il palco. Tutto il suo mondo allontanatosi pian piano. Il suo stesso corpo, tramutato in un’aspirazione allo stato del sogno, testimonia amaramente il congedo da tutto quello che avrebbe potuto riservarle gioie e soddisfazioni. Il duro lavoro per alimentare il suo talento siede al suo fianco in forma di silenzioso e inappagabile rimpianto. E il disegno è quel che resta per continuare a inseguire tutto quel perduto.

Tuttavia, un giorno, anche le mani di Wera si fermano per sempre. Quella rara forma di leucemia l’ha quasi del tutto paralizzata, concedendole, oramai, soltanto l’uso della voce. Wera può ancora parlare e lo fa per raccontare ai suoi familiari i ricordi della danza e della musica. A un certo punto, appena diciannovenne, detta alla madre e alla sorella un piccolo diario personale. Ma dura poco. La malattia silenzia i suoi entusiasmi residuali, le chiude gli occhi, arriva al capo e, dopo un breve periodo di coma, porta Wera via con sé per sempre.

Poco dopo la morte della ragazza, la madre Gertrud, amica di Rilke, spedisce una lettera allo scrittore che, nel frattempo, si trova lontano da Berlino, impegnato a stendere le prime bozze de I sonetti a Orfeo, opera che Rilke concluderà quasi in contemporanea con le Elegie Duinesi. La stesura, quasi di getto, rapida e dolorosissima, de I sonetti a Orfeo, probabilmente, è l’innesco per la conclusione delle Elegie. Rilke scrive i sonetti in poche settimane, “abbozzandone” quasi la metà dell’edizione definitiva tra il 5 e il 7 febbraio del 1922. Tra il 7 e l’11 febbraio, il poeta vede finalmente compiersi le Elegie Duinesi. Dopo un’interruzione durata circa sei anni, Rilke riesce a concludere l’opera la cui composizione viene da lui stesso definita come “un uragano nello spirito”, “un sacro elementare disordine”, “una tempesta divina”. La musa che lo ispira per la stesura dei Sonetti è un’apparizione. Le venticinque poesie che Rilke scrive nei quattro giorni dai quali nascono I sonetti a Orfeo perfezionano un momento per cui lo scrittore austriaco utilizza il verbo sich einstellen: comparire, presentarsi.

Insieme alla lettera con cui la madre di Wera comunica la scomparsa della figlia c’è pure allegato il diario breve che la ragazza aveva fatto in tempo a dettare prima di andarsene. Poche decine di pagine come ultimo atto della sua breve quanto estenuante carriera d’artista. Insieme alla lettera, insieme alla triste comunicazione e insieme al diario della ragazza, Rilke riceve anche un’altra notizia. Al poeta viene diagnosticata la leucemia. Lo stesso male che aveva ucciso Wera adesso ha fatto visita anche al corpo dell’autore di origine boema.

Il lento e progressivo logoramento che ha spento la vita di una giovanissima ragazza quando questa sembrava destinata a coronare i suoi sogni di artista, probabilmente, spinge Rilke, che pure sa di dover fare i conti con gli stessi dolori e le stesse sottrazioni, a sovrapporre lo sguardo del suo futuro a quello che il destino aveva assegnato a Wera. Con gli occhi fissi su un alambicco, il poeta scorge le particelle di tutto quel nero scandito che è lo scorrere lento e inesorabile di qualcosa a cui non è previsto rimedio. Allora, l’Orfeo di Rilke si trasfigura nei tratti del congedo. Non è una figura in visita ai luoghi del dannato, ma il simbolo di quel transito in oblio che non smarrisce i sensi, cercando di assumerli in quello svanire che non è annientamento, ma summa interiorizzata di quelle tensioni e di quegli entusiasmi che diventano discesa agli inferi intesi come luogo profondo, di comprensione. Tutto quanto, sia pur travolto da eventi devastanti, viene inteso anche quando sottratto. Lo svanire come intendimento, come prova ultima della conoscenza. Discendere per ascendere. Quasi come se l’uomo, per un istante, riuscisse a mostrarsi in assunzione di sé.

“[…]il suo cuore aperto a tutto era una cosa sola con l’unità del mondo che esiste e dura; l’assenso alla vita, il gioioso, commosso appartenere a ciò che è qui[…]”

Ma ancora il vivere ha per noi segreti; in cento

Luoghi è ancora origine, gioco di forze pure,

e chiunque le tocchi si inginocchia ed ammira.

Nascono ancora leggere parole vicine all’Indicibile…

E la musica sempre nuova innalza con pietre che più vibrano

Nello spazio inusabile il suo asilo animato dal divino.

I Sonetti a Orfeo appartengono a Wera, sia pur la rivelazione di questa relazione venga definita da Rilke stesso “blanda” e rintracciabile nel XXIV sonetto. Tuttavia, sempre secondo il poeta, il penultimo tratto è quello dominante, quello che “muove l’andamento del tutto”. Eppure, Orfeo esiste già. Forse, il suo spirito si è spinto ai primordi e fino ai confini di quei luoghi informi presso cui la mortalità e l’immortalità si compatiscono l’una l’altra.

Un Dio lo può. Ma come potrà un uomo,

dimmi, seguirlo sull’esile lira?

L’uomo è discordia. Non ha templi Apollo

Dove in cuore s’incrociano due vie.

Il canto che tu insegni non è brama,

non cerca meta che s’attinga al termine.

Canto è esistenza. Al Dio facile cosa.

Ma noi, noi quando ‘siamo’? E al nostro essere

Quando rivolge il Dio la terra e gli astri?

Non quando ami se anche, giovinetto, la voce

Forzi la bocca. E tu impara a scordarlo,

il canto che ti nacque; e che si perde.

Vero canto è un altro alito, un alito che tende

A nulla. Uno spirare nel Dio. Un vento.

Se la mossa allo scuotimento per Rilke giunge attraverso la tragica sincronia della morte di Wera e della notizia della sua malattia, la stessa che ha colpito la ragazza, Orfeo è il nascosto autorizzato a rivelarsi ora che in Rilke e nel suo intorno amarissimo aleggiano l’inquietudine per la fine di una vita a lui cara e la consapevolezza che alla conclusione della propria non manchi poi così tanto e col timore che altrettante sofferenze e menomazioni possano da un momento all’altro iniziare a spegnere il suo corpo poco a poco. In frazioni, come avvenuto a Wera, che si era vista sottrarre le sue qualità assistendo a quello spietato processo senza potervi rimediare.

Proprio nel sonetto precedente il penultimo, Rilke scrive:

Ah, il fantasma dell’Effimero

attraversa come se fosse fumo

che inconsapevole l’accoglie.

Andare alla deriva, questa la nostra essenza,

pure, nel cielo delle forze perenni,

quali strumenti divini abbiamo un senso.

La fine di Wera agli occhi di Rilke fonde il destino della ragazza con la stessa sventura toccata in sorte al poeta. Ecco che, come in un’inversione della morte, l’energia vitale di Rilke ritrova conforto in una forma di entusiasmo nata dal riconoscimento di una funzione sottile di quella vita che, sia pur prossima all’abbandono, determina la percezione dell’amato contenuto in ogni luogo, in ogni cosa, in ogni spazio vitale evocato dalla poesia.

Il 7 febbraio Rilke scrive a Gertrud Knoop:

“[…] in alcune giornate di immediata ispirazione, in cui pensavo in realtà di dedicarmi ad altro, mi sono stati dati in dono questi sonetti. Lei comprenderà a primo sguardo perché debba essere la prima a possederli. Perché, per quanto blanda sia la connessione con Wera, (un solo sonetto, il penultimo, ne evoca la figura […]) quella connessione domina e muove l’andamento del tutto, e ha penetrato sempre più (seppur così segretamente che me ne sono accorto a poco a poco) questa composizione inarrestabile, che mi scuote.”

“Scuote”. Rilke utilizza un verbo che è chiave d’accesso a quella potentissima rivelazione con cui l’origine antica della poesia orfica traduce in vitalità perpetua la conoscenza assoluta. La manovra delle parole al servizio di quella tensione estatica dell’unità che si manifesta tra polarità opposte. Il grande mistero del contenuto divino dentro la natura umana delle cose. La conoscenza che rifiuta l’apparenza dello specchio, lo strumento che restituisce un’immagine ingannevole dell’es. Proprio lo specchio, nel mito della passione di Dioniso, è il giocattolo con cui il fanciullo Dioniso-Zagreus viene distratto dai Titani prima di essere divorato. Lo specchio è il simbolo del superamento di quell’illusorio stadio di conoscenza apparente che surroga l’essenza assoluta di una condizione, quella autentica e completa, che sa di quello che c’è sia pur non essendo visto, che agisce sia pur non immediatamente manifestato, che è nel primordiale sia pur promesso al futuro. Il sonetto della fase che Rilke dedica a questo aspetto termina, non a caso, con una sorta di redenzione di Narciso, “liberato” dal rischio che lo specchio rappresenti un irrimediabile inganno mortale.

I sonetti riguardano, dunque, l’accordo della vita con l’inevitabilità della morte. Nessuna rassegnazione, però. Non è la resa dell’una o dell’altra. La vita è concretezza in anticipo di quello che la morte arriva a velare e a rivelare per sempre. Lì, a dispetto di ogni apparente scomparsa, vivono ancora Wera Ouckama Knoop e Rainer Maria Rilke. Lì, senza che alcun ordine irrompa a emendare questa  armonia, la vita e la morte si parlano l’un l’altra. E né l’una né l’altra corrodono o sgretolano.

Al sonetto XXIV, per uno tra i componimenti più alti della storia della letteratura occidentale, Rilke scrive:

“O gioia sempre nuova di creare dalla tenera argilla!

Quasi nessuno li aiutò, i primi che osarono.

Città tuttavia sorsero lungo golfi felici,

acqua e olio colmarono le brocche tuttavia.

Gli dèi, li progettiamo prima in abbozzi audaci

che l’ispido destino nuovamente ci distrugge.

Ma essi sono immortali. E a noi è dato tenderci

in ascolto a colui che ci esaudisce infine.

Noi, una stirpe sola nei millenni: madri e padri

sempre più gravidi di quel futuro figlio

che un giorno superandoci, sconvolga il nostro essere.

E quanto tempo abbiamo, noi gettati nell’azzardo infinito!

Chi siamo, lo sa solo la morte taciturna,

e sa quale guadagno ne trae quando ci presta.”

 

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