“Apocalypse Now – The Final Cut”, la versione di Francis
Final Cut. Taglio finale, la “versione perfetta”, secondo una dichiarazione attribuita a Francis Ford Coppola. Una dichiarazione che dovrebbe suonare come definitiva ma che è davvero difficile prendere per buona. Perché, come ebbe a dichiarare lo stesso regista, esiste così tanto materiale girato che sarebbe possibile montare una nuova versione del film ogni paio di anni per parecchio tempo. Perché (ad avviso di chi scrive, fortunatamente) Apocalypse now è un film infinito (e anche in-finito) fin dalla sua prima proiezione pubblica mondiale, quella mostrata a Cannes nel 1979. Già allora vennero proiettate due versioni con due finali differenti: la prima è quella che conosciamo tutti che culmina nell’assassinio di Kurtz e nella partenza di Willard insieme al giovane Lance (l’attore Sam Bottoms), ormai regredito a uno stadio infantile e che è anche quella presentata alla proiezione ufficiale. La seconda si conclude con Willard che prende il posto di Kurtz diventando il nuovo dio dell’isola. In realtà, esiste anche un terzo finale, variazione del primo, in cui Willard, dopo essere salito sulla barca con Lance, chiama l’aviazione per ordinare il bombardamento (il significativo codice è “Onnipotente”) e la distruzione dell’isola mentre le note di The End dei Doors chiudono il cerchio aperto dalla sequenza iniziale. Addirittura, come ricorda enrico ghezzi in un suo articolo pubblicato sul mensile “Alfabeta”, all’uscita nelle sale italiane, in alcuni cinema si proiettava una versione con il primo finale, in altri quella con il secondo.
Al di là della sua storia filologica, e in fondo anche per questo, Apocalypse now è una di quelle opere d’arte destinate a non invecchiare mai, un film-mondo, un eterno revenant destinato a rifare la sua comparsa sugli schermi a intervalli più o meno regolari di tempo: ed eccolo, dunque, ritornare ancora una volta nelle sale di tutta Italia per tre giorni, dal 14 al 16 ottobre, con un minutaggio più consistente della copia “ufficiale” ma leggermente ridotto rispetto al precedente redux. Si tratta di un’opera che racchiude, allo stesso tempo, la follia e la grandezza del suo autore che, dopo lo strepitoso successo del dittico de Il Padrino, può permettersi tutto, e che decide di cogliere l’occasione per realizzare il film della vita, l’opera che lo trasformerà in un Icaro moderno, desideroso di spiccare il volo e di bruciarsi le ali a contatto con il Sole. Apocalypse now, culmine e canto del cigno della New Hollywood (insieme al meraviglioso, quasi coevo, I cancelli del cielo di Michael Cimino, che uscirà l’anno successivo) contiene infatti tutti i segni del titanismo del grande regista di Detroit, la sua ambizione di essere bigger than life, che lo accomuna ad altri autori “fuori misura” come Orson Welles e Werner Herzog, tutti portatori di un’idea assoluta di cinema, in un periodo della storia (non solo) statunitense della settima arte probabilmente irripetibile e sicuramente non più ripetuta.
Con Apocalypse now Coppola racconta un momento tragico del suo Paese, gli Stati Uniti e il disastro del Vietnam, servendosi di alcuni grandi riferimenti della cultura europea: il Vecchio mondo aiuta uno dei figli più geniali di quello Nuovo a comprendere e sviscerare la storia del suo Paese, e lo accompagna alla scoperta di una delle tante pagine buie da cui essa è attraversata. Si parte infatti dal polacco, poi naturalizzato britannico, Joseph Conrad e dal suo Heart of darkness e si arriva a Thomas S. Eliot (lui statunitense di nascita ma divenuto anch’egli cittadino dell’ex madrepatria), con i suoi versi citati nel film che parlano di “uomini vuoti e impagliati, che appoggiano l’un l’altro la testa piena di paglia” passando per Richard Wagner, con la sua Cavalcata delle Valchirie, per i brividi edipici di Freud e per Dante, con Willard come immagine del grande poeta fiorentino, destinato a non andar oltre l’itinerario all’Inferno. Non a caso, fin dal titolo il capolavoro di Coppola richiama, rovesciandolo, il motto pacifista “paradise now” veicolato, tra gli altri, dagli artisti del Living Theater, per mostrare il cuore di tenebra del mondo e l’immedicabile solitudine umana, dove il Vietnam non è solo luogo geografico ma anche cupo paesaggio dell’anima che assurge a simbolo del collasso di un intero sistema di valori.
Non vi è dunque ascensione, in Apocalypse now, nessuna speranza di “riveder le stelle” ma piuttosto una discesa, in realtà più simile a un progressivo scivolamento, dentro le pieghe più profonde del Male, così come, al termine del sacrificio finale, una volta consumatosi l’eterno conflitto con il padre, non v’è alcuna Giocasta da conquistare e con cui giacere. Willard non è né un soldato, come amerebbe definirsi, né un assassino, come la sua missione lascerebbe supporre: egli è soltanto un moderno uomo senza qualità. Privo della vitalità del colonnello Kilgore (un indimenticabile Robert Duvall) o dell’umanità dei suoi compagni di viaggio, capaci di intravvedere ancora un paradiso, una famiglia o una donna con cui riunirsi una volta conclusa la guerra, un cucciolo di cane da accudire, una canzone da ascoltare, Willard è, come gli rinfaccerà Kurtz, nient’altro che “un garzone di bottega, inviato dal droghiere a incassare i sospesi”.
Ed è forse questo uno dei tanti motivi del fascino di un’opera come Apocalypse now, e cioè il fatto di essere un esempio raro di come il gigantismo hollywoodiano e il senso dello spettacolo della Mecca del cinema, messi nelle mani giuste, siano capaci di trasformare un kolossal bellico nel più universale e intimista dei viaggi interiori, di penetrare dentro quello spazio invisibile che è il cuore umano, dove l’apocalisse è sempre infinita.
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