“Parasite” di Bong Joon-ho, scene di lotta di classe a Seul
I quattro membri della famiglia di Ki-taek sono molto uniti, ma anche molto disoccupati, e hanno davanti a loro un futuro incerto. La speranza di un’entrata regolare si accende quando il figlio, Ki-woo, viene raccomandato da un amico, studente in una prestigiosa università, per un lavoro ben pagato come insegnante privato. Con sulle spalle il peso delle aspettative di tutta la famiglia, Ki-woo si presenta al colloquio dai Park. Arrivato a casa del signor Park, proprietario di una multinazionale informatica, Ki-woo incontra la bella figlia Yeon-kyo. Ma dopo il primo incontro fra le due famiglie, una serie inarrestabile di disavventure e incidenti giace in agguato [sinossi].
“Una commedia senza clown, una tragedia senza cattivi”. Questa, nella sintesi di Bong Joon-ho, la natura di Parasite, settimo lungometraggio del regista sudcoreano, che gli è valso una meritata Palma d’oro all’ultimo Festival di Cannes, e un grande successo di pubblico sia in patria che in Francia (dove è stata la Palma d’oro con il maggiore incasso di sempre). Commedia. Tragedia. Ma, sicuri di non incorrere in esagerazioni, aggiungeremmo anche il thriller e il dramma familiare. Sì, perché Parasite è un film dal carattere ambiguo e policefalo, un’opera tanto semplice e di facile lettura nei suoi significati primari quanto inafferrabile e multiforme se si tentasse di attribuirle giocoforza la sua giusta casella nel catalogo dei generi.
Con toni e ritmi da commedia scatenata che, nei suoi momenti migliori, richiamano alla mente il miglior Billy Wilder, Bong, autore anche del soggetto e della sceneggiatura (quest’ultima insieme a Han Jin-woon), costruisce con maestria una storia che ragiona sul tema intramontabile della lotta di classe e dell’invidia sociale. Solo che Bong non è Ken Loach cosicché il suo sguardo si tinge a un certo punto di ferocia, e appare più incline all’analisi sociologica e antropologica che alla presa di posizione esplicitamente politica e militante. Disegnando con implacabile sarcasmo i suoi personaggi, l’autore di Memories of murder li osserva con occhio da entomologo e costruisce un affresco sullo stato dell’arte della società sudcoreana dove dominano le disuguaglianze e dove il mondo appare (letteralmente) diviso in due livelli. C’è infatti uno strato superiore che ignora l’esistenza di quello inferiore fino a quando non ha bisogno che esso si metta al suo servizio: a quel punto può giungere persino a ricompensarlo a patto che non si arrivi mai “a superare mai il limite”.
Tuttavia, se quello del signor Park è un mondo a parte, una sorta di pianeta irraggiungibile, il nucleo familiare capitanato da Ki-taek è animato soltanto dall’ansia di possesso di oggetti e denaro perché “i soldi sono un ferro da stiro: qualunque piega, la stirano”, secondo la filosofia della moglie del capofamiglia. La rivalsa sociale è quindi tutta individuale, e non vi è alcuna traccia di coscienza di classe in un popolo impregnato di appetiti borghesi e prono nei confronti dell’ideologia capitalista dominante, incapace non solo di agognare un riscatto ampio e generalizzato ma persino di immaginarlo. Se nel precedente Snowpiercer lo stesso discorso veniva portato avanti attraverso la rappresentazione di un mondo distopico e futuribile, Parasite è completamente immerso in un contemporaneo fatto di quartieri degradati, abitazioni fatiscenti, lavori precari o malpagati, di lotta per la sopravvivenza unita all’assenza di dignità e a un totale vuoto di idee che rendono impossibile qualsiasi possibilità di riscatto.
La forza di un’opera come Parasite è di raccontare tutto questo attraverso un meccanismo di grande leggerezza (in senso calviniano, per quanto la matassa vada progressivamente incupendosi mentre si dipana), capace di inanellare una serie di felicissime soluzioni estetiche e di svolte narrative sorprendenti. Il film si avvale di una struttura in crescendo che costringe lo spettatore a una continua e fervida rielaborazione sebbene finisca per perdere forse qualche colpo nei minuti conclusivi in cui rischia di ingorgarsi in un susseguirsi eccessivo di finali. Con Parasite, commedia nera, amara e irresistibile, Bong Joon-ho sfiora il capolavoro e raggiunge dunque il punto più alto della sua filmografia. Imperdibile.
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