Il Pinocchio di Matteo Garrone non va oltre la mera illustrazione di Collodi
Un budget di circa 15 milioni di euro e una lavorazione di quasi quattro anni per la nuova trasposizione del romanzo di Carlo Collodi, uno dei libri più letti al mondo: finalmente vede la luce l’atteso Pinocchio di Matteo Garrone, nelle sale italiane dal 19 dicembre. Dopo il diseguale ma affascinante Il racconto dei racconti (in concorso a Cannes nel 2015), che adattava per il grande schermo alcune novelle del Pentamerone di Giambattista Basile, il regista romano, probabilmente l’autore italiano più dotato e completo della sua generazione, decide di prendere un altro rischio e di confrontarsi con un testo più volte portato al cinema. Si parte infatti dalla prima trasposizione muta di Giulio Antamoro (correva l’anno 1911), interpretata dall’attore francese Ferdinand Guillaume, in arte Polidor, per arrivare a quella fallimentare diretta da Roberto Benigni nel 2002, passando per le due migliori: quella della Disney del 1940 (ma distribuita in Italia soltanto nel 1946, a guerra terminata) e quella televisiva (1972), in cinque puntate, di Luigi Comencini, unanimemente, e a ragion veduta, considerata la migliore.
Un po’ romanzo di formazione, un po’ racconto fantastico, la storia del burattino che sogna di diventare “un bambino come tutti gli altri” si è sempre prestata a letture varie e molteplici: da quella più libertaria che vuole Pinocchio come eroe anarchico che sfugge al conformismo sociale preferendo l’avventura e la fuga a quella più conservatrice che plaude alla punizione del reprobo (incarnato soprattutto dal personaggio di Lucignolo) e l’adesione del protagonista ai valori dell’onestà e del buon vivere borghese.
La versione di Garrone sembra inizialmente oscillare tra queste due tendenze ma poi il film si palesa per quel che è: una sorta di illustrazione di pregio delle avventure del burattino più famoso del mondo. Il Pinocchio in questione sembra infatti puntare in massima parte sugli aspetti più visionari della favola dando rilievo preponderante al ricco e sontuoso apparato scenografico (che talvolta lascia il posto a immagini en plein air, che sembrano mutuate dalla pittura dei Macchiaioli), ai sorprendenti effetti speciali (notevole la trasformazione dei bambini in asini), al minuzioso e accuratissimo lavoro sul trucco dei personaggi dove spiccano, tra le altre, la maschera di Pinocchio e quella degli altri burattini del teatro di Mangiafoco, e la splendida lumaca che riveste il corpo dell’attrice Maria Pia Timo (che sembra provenire direttamente dal Racconto dei racconti).
Se l’armamentario visivo, con evidenti richiami all’universo dark di Tim Burton, nel complesso tiene e raggiunge qua e là risultati affascinanti, Garrone è invece piuttosto a disagio quando deve concentrarsi sulla narrazione, soprattutto laddove sarebbe necessario infonderle vigore, ritmo e scioltezza. Sotto questo aspetto, il film è rallentato, irrigidito, a tratti addirittura ingolfato, e sembra procedere per quadri giustapposti più che per vera progressione narrativa. Soprattutto nella prima parte, in particolare nella scena che vede Pinocchio risiedere nel palazzo della Fata Turchina ancora bambina, sembra quasi di assistere a una recita scolastica di lusso con qualche brusco scivolone (uno su tutti, l’ingresso dei becchini che trasportano la piccola bara destinata a Pinocchio), complice anche una direzione non sempre impeccabile dei giovanissimi protagonisti.
Nonostante la molteplicità di letture e di punti di vista ai quali pure il testo di partenza si presterebbe, non si avverte quasi mai uno scarto, la ricerca di un punto di vista inedito o inconsueto. Non sembra esserci spazio alcuno per l’attualizzazione o la rivisitazione, lo stravolgimento o la reinterpretazione forbita o cólta, nessun accento trasgressivo, nessuna vera nota sorprendente, eccezion fatta – ancora una volta – per qualche smagliante soluzione visiva, come nella bellissima immagine dell’asino in fondo al mare, o per qualche guizzo isolato come quello dell’ambientazione presepiale della trasformazione di Pinocchio in bambino in carne e ossa e l’apparizione notturna della carrozza diretta al Paese dei balocchi.
Inoltre, nel ricco bestiario dei personaggi di contorno, non tutte le figure appaiono riuscite: se il Gatto di Rocco Papaleo e soprattutto la Volpe di Massimo Ceccherini funzionano piuttosto bene, decisamente meno centrati sono il Grillo Parlante di Davide Marotta e il giudice gorilla di Teco Celio. Sul versante dei personaggi non zoologici, se Roberto Benigni dà buona prova di sé, infondendo al suo Geppetto misura, pudore e delicatezza, decisamente sfocato è il Mangiafoco di Gigi Proietti, la cui presenza in scena è risolta in maniera un po’ troppo sbrigativa e frettolosa, ed è davvero troppo fugace. A conti fatti, dunque, la sensazione è quella di trovarsi di fronte alla famosa montagna che partorisce il topolino, a un’opera minore, la più ambiziosa ma anche la meno riuscita di Matteo Garrone, una versione tutto sommato anodina e inessenziale.
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