Checco Zalone batte ogni record ma Tolo Tolo funziona solo a tratti
L’imprenditore Pierfrancesco Zalone, detto Checco, scappa in Africa per sfuggire ai suoi creditori e sottrarsi al fisco. Qui va a lavorare in un villaggio turistico dove incontra Oumar, aspirante regista, appassionato di cinema italiano. In seguito a una guerra scoppiata nel Paese, Checco e Oumar intraprendono un pericoloso viaggio verso l’Italia, seguendo la rotta dei migranti. Con loro ci sono anche la combattente Idjaba e il piccolo Dudù.
Non si può negare a Luca Medici alias Checco Zalone di avere fiuto e intelligenza, e di saper usare in maniera estremamente proficua le tecniche di marketing, a partire dall’utilizzo della propria immagine. Innanzitutto, l’idea di allontanarsi dai riflettori dopo i 65 milioni di euro d’incasso di Quo vado?, di dare vita a una vera e propria sparizione. Infatti, nei quattro anni trascorsi dal film dei record, distribuito a gennaio 2016, Luca/Checco si è eclissato rifiutando anche ospitate televisive molto remunerative (basta ricordare il suo “No” a Sanremo nel 2016), preferendo lasciare che il pubblico lo desiderasse e si chiedesse che cosa stava combinando. Intanto, il comico pugliese osservava la realtà del nostro Paese, tante volte sbertucciata in “Zelig”, il montare del sovranismo, il timore verso l’immigrato e, più in generale verso il diverso, il riaffiorare di tendenze fasciste in una società sempre più imbastardita e meno coesa. Così, abbandonando per il momento il sodale Gennaro Nunziante, con il quale aveva realizzato i primi quattro film, Checco Zalone si mette in proprio e si fa regista di se stesso. O meglio, lo sceneggiatore e musicista Luca Medici si mette dietro la macchina da presa, accettando di farsi aiutare in fase di script da Paolo Virzì, per dirigere il personaggio Checco Zalone, nuova immagine dell’italiano medio: cinico, ignorante, qualunquista e furbastro. Checco questa volta veste i panni di un imprenditore truffaldino, in fuga dalle sue responsabilità, attento solo al proprio “particulare”, come direbbe lo scrittore e politico Francesco Guicciardini, acuto commentatore dei costumi dei suoi connazionali in un luogo tormentato com’era l’Italia del XVI secolo.
Nasce così Tolo Tolo che, fin dal prologo, ambisce a mettere in mostra (e in ridicolo) tutti i luoghi comuni dell’homo italicus contemporaneo. Però, c’è da dire che proprio il lungo incipit rivela subito tutti i limiti estetici e le indecisioni di un’operazione che si srotola con molta fatica per tutta la sua durata, saggiamente contenuta nel limite dei 90 minuti. Il film si apre infatti all’interno di un commissariato, dove Checco è costretto a fornire le proprie impronte digitali, luogo nel quale non torneremo mai più e che appare come un vero e proprio “buco” di sceneggiatura. Medici e Virzì imbastiscono poi una storia che procede per grandi sbalzi inanellando una serie di sequenze dal ritmo e dai risultati ondivaghi, in cui si avverte più di un brusco taglio di montaggio e una consecutio degli eventi in cui la logica e la verosimiglianza non sembrano essere le principali preoccupazioni degli autori. È come se Medici/Zalone apparisse preoccupato di mantenere un registro comico-farsesco, arrestandosi sempre un passo prima di scavalcare quel limite che lo porterebbe nei territori complessi e sfaccettati della commedia, probabilmente poco congeniali al Checco nazionale, e che negli scorsi decenni hanno fatto la fortuna del nostro cinema.
Invece Tolo Tolo sceglie di mantenersi dentro i recinti della farsa, qua e là magari anche acida e graffiante, dove però, nel corso della visione, si avverte costantemente l’impressione di stare assistendo a una successione di sketch, non tutti di alto livello, con ritmi e tempi da cabaret televisivo e con qualche scivolone nel cattivo gusto (un esempio su tutti, il canto Gnocca d’Africa, che grida davvero vendetta). Nel complesso, la volontà di denuncia non è supportata da una struttura narrativa abbastanza solida e da una regia adeguata agli ambiziosi obiettivi che si vorrebbero perseguire e che, visto il sostanzioso budget investito, non sarebbero impossibili da raggiungere. In particolare, proprio sul versante della messinscena, accanto a un certo coraggio di osare con scelte non convenzionali come l’utilizzo dell’animazione e qualche richiamo agli stilemi del Neorealismo italiano, espressamente citato, si assiste anche a un uso invadente e troppo ripetuto dei droni che spingono verso una rappresentazione “turistica” dei luoghi del viaggio. Allo stesso modo, la descrizione dei campi di prigionia e del barcone che trasporta i migranti verso l’Europa appare a dir poco edulcorata, a scapito ancora una volta della verosimiglianza, e sembra rivelare la preoccupazione di non turbare troppo l’animo dello spettatore con dettagli troppo scabrosi e cruenti, e di non mettere a repentaglio il successo del film al botteghino.
Se la parte ambientata in Africa è quindi piuttosto semplicistica e schematica, non molto meglio va con quella italiana dove la scrittura dei personaggi cede il passo a una carrellata di figure macchiettistiche, tratteggiate senza il minimo spessore, direttamente legate all’universo dei precedenti film realizzati da Checco con Gennaro Nunziante, opere dalle quali Tolo Tolo riesce solo in minima parte a distanziarsi. Certo, va riconosciuto a Medici/Zalone il coraggio di schierarsi, l’intelligenza di avere pungolato ed eccitato i peggiori istinti sovranisti e razzisti di casa nostra con un trailer finto e volutamente ambiguo (un vero colpo di genio in fase di promozione) per poi rivelare un’opera diametralmente diversa e spiazzante che rovescia il piatto e mette alla berlina molti vizi contemporanei, centrando più di una volta il bersaglio.
Estremamente indovinata, in particolare, è la figura del vanesio reporter di guerra, attraverso il quale il film smaschera tutta la falsità e l’ipocrisia di una certa stampa finto-progressista, capace di imbastire bei discorsi sulla vera ricchezza (quella interiore), costituita dall’umanità incontrata nei propri reportage, per poi starsene al sicuro dentro le mura protette di resort stellati. Per non parlare della rappresentazione del politico dalla carriera fulminea, interpretato da Gianni D’Addario, sorta di Creatura di Frankenstein che, come ha dichiarato il regista in conferenza stampa, “è un mostro: vestito come Giuseppe Conte, parla come Salvini e ha fatto carriera in breve tempo come Di Maio”. E allora, chissà se non sia questo il grande merito involontario di un film modesto e diseguale come Tolo Tolo, cioè quello di rivelarci che, in un’Italia dominata da politici mediocri, giornalisti conniventi e dove quasi nessuno sa più fare commedia e raccontare il Paese, non può essere che Checco Zalone l’eroe che ci tocca in sorte: fintamente ignorante ma in realtà acuto osservatore, un po’ cinico, un po’ qualunquista, furbo quanto basta da sembrare un gigante a cospetto della commediaccia odierna, immersa fino al collo dentro le sabbie mobili della mediocrità. Può andare anche bene così, allora, a patto di riconoscere che il genio è un’altra cosa e la sua dimora va ricercata altrove.
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Meno male, pensavo di essere il solo ada aver visto un film pretenzioso di un comico improvvisatosi regista…