Oggi cosa significa l’espressione brava persona?
Nel finale di Salvate il soldato Ryan di Steven Spielberg, un ormai invecchiato James Francis, il salvato ultimo rimasto di un cognome che in guerra ha visto sottrarsi troppi fratelli perché il Governo degli Stati Uniti abbia potuto permettersi di sacrificare anche lui, corre verso la lapide dell’ufficiale (interpretato da Tom Hanks) che cinquant’anni prima, durante la guerra, ha condotto le operazioni per portarlo in salvo fino alla fine del conflitto. James si inginocchia sulla tomba dell’ufficiale John H. Miller e gli dice di aver cercato di vivere la sua vita nel migliore dei modi, nel tentativo di onorare il sacrificio estremo di chi, salvandolo e proteggendolo, gli ha permesso di sopravvivere alla guerra e di formarsi una famiglia. Poi, dopo essersi rialzato, James guarda sua moglie e le sussurra: “Dimmi che ho condotto una buona vita. Dimmi che sono stato un brav’uomo”. Il significato di una condizione ambita dal protagonista per aver onorato il pegno stretto con chi gli ha salvato la vita nel film del regista americano funziona da orizzonte e da verifica. Una tensione lunga mezzo secolo che unisce gli orrori di una guerra senza precedenti e l’intimità afflitta e stremata di chi quella guerra l’ha vissuta, sperimentata e ne è stato estratto a costo di altre vite.
Altre vite, sì, come quelle “degli altri” nel film di Florian Henckel von Donnersmarck, il lungometraggio che racconta una vicenda di spionaggio ambientata nella Germania orientale del periodo comunista. La storia descritta dalla trama del film conduce il suo protagonista, Gerd Wiesler, a una lenta e inesorabile conversione da una cieca obbedienza ai comandi della STASI alla consapevolezza della fallibilità di un regime che reprime innanzitutto ogni forma di sensibilità. Alla fine della conversione, per mano di un artista prima braccato e poi salvato da Gerd, l’ex agente della polizia segreta della DDR trova l’opera pubblicata postuma di un importante autore tedesco perseguitato dalla dittatura e morto suicida perché stanco di vivere un’esistenza segnata dalla privazione e dalle censure. Il titolo dell’opera è Sonata per gli uomini buoni. Ne Le vite degli altri, quindi, la bontà umana è il tocco dell’estremo di quella tensione il cui sollievo difficilmente può essere goduto da chi ha creato le condizioni per realizzarlo, donando al prossimo i suoi effetti struggenti. L’ufficiale Miller in Salvate il soldato Ryan e lo scrittore suicida de Le vite degli altri donano la loro vita a James Francis e a Gerd Wiesler come chiave d’accesso a una pietas maturata all’ombra di lunghi periodi di sofferenze individuali e collettive. Nei due racconti citati, essere una brava persona è in qualche modo un genere di dura e provante conquista.
Eppure, la parola “bravo” affonda le sue radici in un’etimologia che in origine conserva ben altri significati. Una parola mutante lunga secoli e secoli. Dal latino barbarus al greco βάρβαρος (straniero, incivile), attraversando intendimenti che nei secoli addietro hanno associato a questa parola le capacità scaltre e levantine, abili e furbe, miste a spavalderie e inclinazioni selvagge, di guerrieri, soldati o altri uomini in grado di distinguersi per imprese al di là di ogni modello etico e morale. Poi, poco a poco, anche grazie a interventi e utilizzi letterari, la parola ha assunto significati più prossimi a quelli che intendiamo noi. Da Niccolò Franco, autore beneventano del sedicesimo secolo, a Carlo Goldoni, commediografo del diciottesimo secolo che molto ha agito sulla percezione di questa parola, ‘bravo’ è divenuto colui che custodisce virtù umanissime e rassicuranti. Il ritorno agli usi più primordiali di Manzoni – i celeberrimi bravi de I promessi sposi – hanno rievocato una frazione più antica dello sviluppo linguistico di questa parola. I bravi come spietati e violenti mandatari del potente signorotto. Oggi, restando nell’area delle lingue romanze, alcune hanno conservato un significato più sprezzante della parola bravo. Per esempio, in portoghese bravo indica colui che è facile a innervosirsi e a relazionarsi con conflittualità, mentre al plurale, con l’aggiunta della lettera s (bravos), la parola può anche assumere il significato riferito al coraggio degli antichi guerrieri.
Quindi, se si considera questa parola in tutta la sua più ampia accezione e in tutta la sua storia linguistica, essa appare come divisibile in una grande ambiguità letteraria, divisa in significati talvolta opposti. Estraneità e confidenzialità, spietatezza e conforto, diffidenza e onestà, furbizia e fedeltà, via via a tracciare un binario lunghissimo su cui concorrono sentimenti e atteggiamenti incompatibili e talvolta opposti. Di fatto, una parola che può essere concetto emblematico dell’esperienza umana e delle sue relazioni. Ecco che, nell’età contemporanea, in attesa di abbandonare anche questa definizione temporale, alla luce della messa a conoscenza di innumerevoli fatti di cronaca tragici e desolanti, davanti a grandi tragedie, a guerre, violenze e molteplici manifestazioni della miseria umana, il richiamo alle responsabilità individuali e collettive non può trascurare il significato e l’impiego di questa espressione che la nomenclatura più spicciola ha sanzionato a qualcosa di apparentemente semplice e immediato. Brava persona. Che cosa può voler dire?
Nel corso della sua plurisecolare gestazione, questa parola ha covato il suo odierno senso sbrigativo orientato a un’approvazione rapida e benevola di chi ne beneficia. Proprio la parola viaggiante, il significato errante che serba il tratto eterno su cui corrono le diffidenze umane e le violazioni che ne scaturiscono (la parola “straniero”, dalla quale “bravo” deriva, da sempre suggerisce un potenziale dissidio), si è risolta alla bell’e meglio attribuendosi con semplicità e disinvoltura. Essere una brava persona. “Quella è una brava persona”, “In fondo, è un brava persona”. E così, a rincuorarsi delle più subdole fragilità umane dispensando l’elogio a scarto di quello che altro non è che un primario dovere dell’uomo. Essere una brava persona è il più semplice dei doveri. La norma dalla quale ognuno non dovrebbe prescindere.
Quali comportamenti sono realmente credibili per poter verificare il possesso morale e spirituale dell’essere una brava persona? Resta tutto inchiodato alla retorica o ne derivano delle azioni che compiono questa verifica tanto nel quotidiano quanto in quella che potrebbe definirsi l’epoca del se stesso, ovvero, di quel lungo periodo della vita che, trascorso, da un momento all’altro induce a ripensarlo interiormente indagandovi e domandandosi quanto esso sia stato utile agli altri e a sé, quanto abbia rispettato e amato l’intorno che lo ha caratterizzato e quanto, invece, non ha saputo viverlo come ci si sarebbe aspettati.
Però, ancora, la disinvoltura con la quale si qualifica qualcuno considerandola una brava persona quanto ha a che vedere con le ambiguità nascoste in questa espressione? E come queste vengano fuori ogni volta che la vita ci pone davanti alla possibilità di infrangere i muri di omertà, le convenienze, le verità omesse, le esibizioni retoriche fini a se stesse, le leve emotive più bieche e strumentali? Di fatto, il comodo della vita a cui ci si è abituati e assuefatti che, con altrettanta disinvoltura, pesa al netto tutto il lordo della vita di cui, con quella disinvoltura, si ignora la sua tara. Tara fatta di azioni, di gesti, di compimenti. Nella vita pubblica e in quella privata, in quella professionale e tra gli affetti familiari e, persino, nei rapporti sentimentali. È da brave persone schierarsi politicamente candidandosi in partiti che, apertamente o in via indiretta, sostengono discriminazioni e conflittualità (in tutte le loro forme)? È da brave persone sostenerle da semplici elettori giustificando l’imbarazzo con la scusa morale del “Ma è una brava persona”?
È da brave persone accettare la realtà predicandola invincibile e immodificabile? Ed è da brave persone avvertire quella sensazione di sollievo e di protezione che essa ci fornisce quando ci troviamo dalla parte giusta solo perché, per dirla alla Beckett, “la sorte ci ha cacciati” lì? Magari, senza risparmiare un sogghigno di disprezzo e di giudizio col dito puntato verso chi non è stato destinato a quella regione di privilegio. È da brave persone sfoggiarsi commossi e colpiti da gravi fatti di cronaca, sfoderando verifiche estetiche (a proposito di verifiche) che fungono da conforto alla propria retorica e che provengono da quella commozione al consumo frequentemente pubblicata sui giornali o mandata in onda dalle televisioni in forma di fiction cinematografica? Ed è da brave persone applicare a se stessi quella retorica, dandosi del cattivo perché ci si iscrive nella lista universale delle colpe e delle responsabilità? Il “siamo tutti colpevoli”, invece, è il manifesto anonimo della pretesa innocenza per eccellenza. Il rifugio dalle scarse intenzioni e dal disorientamento. Soprattutto, lo sguardo di sbieco rivolto di sfuggita al primo angolo della strada in cui si scorge la prova tangibile e improvvisa di quell’apparente coscienza della responsabilità. E via, a sfuggirvi di nascosto, per poi ripetersi di essere tutti colpevoli.
È come se la trasformazione progressiva dell’espressione “brava persona” avesse sorvegliato a distanza la composizione di un romanzo di formazione di una civiltà che si è dotata di un sentimento di impotenza e arrendevolezza tanto cosciente quanto soccorritore. La raffinatezza della codardia. Una deriva che ha lentamente approssimato le linee di disperazione di civiltà disperate che altre hanno accolto e accolgono come degli invasori.
Quanto è ampia la divaricazione che separa l’attribuzione teorica di questa espressione dalla sua legittima concretezza? Tra i due lembi, tra le sponde in lento e costante allontanamento, probabilmente precipitano le brave persone. Scavando e riscavando fino al fondo del barile, confortati soltanto dai casi letterari, dagli Antonius Block de Il settimo sigillo di Ingmar Bergman e altri sacrifici estremi, difficilmente si arriverebbe a una risposta sulla domanda cosa significhi oggi l’espressione brava persona. Il caso pare voler giacere allo stadio di quesito. Che sia la disinvoltura nell’adottare questa espressione ad affrancare tanto lo scrupoloso quanto il superficiale. E, a proposito di letteratura, a tale riguardo salta all’occhio un frammento de Il maestro e Margherita di Bulgakov: “Goleniščev, concedendo attenzione a Michajlov che aspetta un giudizio sul suo quadro, afferma: ‘Il vostro quadro è molto avanzato da quando l’ho veduto l’ultima volta. E allora come adesso mi colpisce la figura di Pilato. Si capisce perfettamente il carattere di quest’uomo: buono, brava persona, ma funzionario fin nel midollo delle ossa, che non si rende conto delle sue azioni.’ ”