Hammamet di Gianni Amelio, la versione di Craxi
Sono passati vent’anni dalla morte di uno dei leader più discussi del Novecento italiano, e il suo nome, che una volta riempiva le cronache, è chiuso oggi in un silenzio assordante. Fa paura, scava dentro memorie oscure, viene rimosso senza appello. Basato su testimonianze reali, il film non vuole essere una cronaca fedele né un pamphlet militante. L’immaginazione può tradire i fatti “realmente accaduti” ma non la verità. La narrazione ha l’andamento di un thriller, si sviluppa su tre caratteri principali: il re caduto, la figlia che lotta per lui, e un terzo personaggio, un ragazzo misterioso, che si introduce nel loro mondo e cerca di scardinarlo dall’interno [sinossi].
C’è traccia del cinema italiano recente e, al contempo, diversi riferimenti a quello precedente di Gianni Amelio in Hammamet, il nuovo lungometraggio del regista calabrese. Il pensiero va a opere di autori nostrani che hanno mostrato una certa propensione nel raccontare le vicende degli uomini potenti del Belpaese cercando di indagarne anche gli aspetti più privati e inediti. In questo senso, va citato innanzitutto Paolo Sorrentino, autore nel 2008 dello splendido Il Divo (probabilmente il punto più alto della filmografia del regista oscarizzato), ritratto acido e grottesco di Giulio Andreotti, sotto forma di commedia nera, e del meno risolto Loro (2018), qui e qui è possibile leggere i nostri approfondimenti su quell’operazione), che si concentrava sulla figura di Silvio Berlusconi. Anche Nanni Moretti aveva dedicato un film all’uomo di Arcore, Il caimano (2006), dove la storia di una crisi matrimoniale si intrecciava con la sceneggiatura di un film “da farsi”, che doveva narrare l’oscura ascesa al potere economico e politico italiano dell’ex Cavaliere, poi condannato a cinque anni di reclusione per frode fiscale.
A differenza dei suoi colleghi, in Hammamet Amelio sceglie di concentrarsi su un personaggio ormai deceduto (Andreotti era infatti ancora vivo ai tempi dell’uscita de Il Divo) in occasione del ventennale della sua scomparsa, avvenuta nella città tunisina dove Bettino Craxi, che nel film è appellato semplicemente come “Il Presidente”, era scappato dopo le due condanne in via definitiva, per reati ignominiosi, che gli avevano fatto collezionare circa undici anni di carcere. L’incipit, la sequenza migliore di un film tutt’altro che riuscito e che sta suscitando un aspro dibattito e un ottimo riscontro al botteghino, si svolge nel 1989, nel giorno del Congresso del PSI che sancisce la conferma di Craxi alla guida del partito con una “maggioranza bulgara”. In quell’occasione, viene mostrato l’incontro con il tesoriere del partito, che annuncia al protervo neosegretario che la magistratura è ormai alle loro calcagna e che la fine è ormai vicina. Dieci anni dopo ritroviamo “il Presidente” ormai canuto, solo e malato, rintanato in una lussuosa villa di Hammamet, una sorta di personale Xanadu, sorvegliata giorno e notte da paramilitari tunisini, che hanno l’ordine di sparare a vista.
La sceneggiatura, firmata dal regista con Alberto Taraglio, immagina che una notte il giovane Fausto, figlio del tesoriere di cui sopra, faccia irruzione nella villa per mettere sotto accusa il Presidente, responsabile indiretto del suicidio di suo padre, lanciatosi dal balcone di casa. Come appare chiaro fin da subito, Fausto è quindi il personaggio cruciale del film, sia perché dovrebbe in teoria porsi come antagonista del Presidente, inchiodandolo alle sue responsabilità morali, sia perché stabilisce un ponte tra Hammamet e alcuni precedenti lavori di Amelio. Infatti, Hammamet è per certi versi l’ennesima variazione sul tema del rapporto tra padri e figli, più volte esplorato dal regista. Basti pensare al bellissimo Colpire al cuore (1983), esordio di Amelio per il cinema dopo alcuni lungometraggi girati per la RAI, o a Le chiavi di casa (2004), in cui si metteva in scena la ricostruzione di un rapporto tra un padre e il figlio disabile, fino ai più recenti L’intrepido (2013) e La tenerezza (2017).
Purtroppo, uno dei limiti del film sta proprio nella narrazione di questo tema a e nella sua moltiplicazione eccessiva: in Hammamet sono infatti mescolati in maniera troppo confusa il trauma di Fausto per la propria tragedia personale, il rapporto tra il Presidente e i suoi due figli, in particolare, con Anita, nome di fantasia attribuito a Stefania Craxi, e quello dello stesso Presidente con il proprio padre (interpretato da Omero Antonutti, qui alla sua ultima apparizione prima della recente scomparsa), rivissuto attraverso una sequenza onirica piuttosto maldestra che guarda a Buongiorno, notte di Marco Bellocchio. A complicare ulteriormente le cose, l’indecisione che si avverte in fase di script tra realismo e simbolismo: il regista prova a fondere i due piani in una commistione che appare a dir poco stridente, anche a causa della scarsa espressività di Luca Filippi, l’attore scelto per il ruolo di Fausto, e che appare una scelta di casting davvero poco azzeccata. Filippi è infatti troppo monocorde e inespressivo per un personaggio la cui ambiguità e complessità avrebbero richiesto una maggiore gamma di variazioni.
Tra l’altro, come già detto, Fausto dovrebbe rappresentare simbolicamente la falsa coscienza del Presidente che, dal suo buen retiro tunisino, si sente in dovere di lanciare strali contro chiunque, senza risparmiare nessuno: dalla magistratura politicizzata agli ingrati compagni di partito, dagli avversari politici ai nuovi referenti su cui puntare per un rientro in patria, dal figlio troppo molle al popolo italiano incapace di comprendere la sua grandezza. In questo senso, lasciato a briglia sciolta e nascosto dietro la maschera costruitagli dall’eccellente lavoro di trucco, capace di riprodurre quasi alla perfezione le fattezze fisiche del suo personaggio, Pierfrancesco Favino offre un’interpretazione memorabile per gestualità, unita a un notevolissimo lavoro sulla voce del Presidente, il cui timbro viene imitato praticamente alla perfezione.
Nella polemica scoppiata contro il regista, reo di contribuire con questo film alla riabilitazione di un personaggio controverso e discutibile (e che, va ricordato, fu un fuggiasco non un esule), proprio il personaggio di Fausto finisce però per creare un pericoloso corto circuito che rompe l’equidistanza che Amelio cerca faticosamente di mantenere. Infatti, almeno nella prima parte, assistiamo a un alternarsi tra l’autodifesa concessa al Presidente, che qua e là si trasforma in vero e proprio comizio, e la condanna intransigente delle ruberie e dell’utilizzo della cosa pubblica a fini di arricchimento personale che, oltre all’indebita sottrazione di denaro pubblico, nel caso del padre di Fausto hanno causato anche la morte di una persona. Purtroppo il ragazzo, contraltare già debolissimo quando è presente, esce di scena a metà film per rientrarvi soltanto in una sequenza finale, che appare francamente come una mascalzonata, in cui ne viene capovolta la funzione. Se fino a quel momento era possibile provare la dovuta pietas nei confronti di un corpo putrescente e in decomposizione, la conclusione finisce infatti per spingere lo spettatore subdolamente (e forse anche un po’ vigliaccamente) verso una complicità impossibile.
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