‘Richard Jewell’ di Clint Eastwood, accendere la fiaccola
“C’è una bomba al Centennial Park. Avete solo trenta minuti di tempo”. Il mondo viene così a conoscenza di Richard Jewell, una guardia di sicurezza che riferisce di aver trovato il dispositivo dell’attentato dinamitardo di Atlanta del 1996. Il suo tempestivo intervento salva numerose vite, rendendolo un eroe. Ma in pochi giorni, l’aspirante alle forze dell’ordine diventa il sospettato numero uno dell’FBI, diffamato sia dalla stampa che dalla popolazione, assistendo al crollo della sua vita. Rivoltosi all’avvocato indipendente, e contro il sistema, Watson Bryant, Jewell professa con fermezza la sua innocenza [sinossi].
È il 1996: il ballo denominato Macarena, mescolanza di ritmi brasiliani e africani, impazza in tutto il mondo, dominando per mesi le hit parade di buona parte delle nazioni occidentali. Gli Stati Uniti si preparano alle Olimpiadi di Atlanta, città scelta per ospitare la grande manifestazione sportiva in occasione del centenario dalla data dei primi Giochi dell’età moderna. L’evento, pur con qualche défaillance organizzativa, ebbe grande successo. Due furono i momenti destinati a entrare nell’immaginario collettivo: la grande impresa atletica compiuta dal velocista Michael Johnson, che batté il record mondiale nei 200 metri (percorsi in 19″32, exploit poi superato nel 2008 da Usain Bolt), e la commovente apparizione di un tedoforo d’eccezione, l’ex-pugile Cassius Clay, il cui fisico era gravemente minato dal morbo di Parkinson.
Clint Eastwood, giunto quasi novantenne alla sua trentanovesima regia per il cinema, riconosce l’importanza di quei due momenti, mostrandoceli attraverso immagini di repertorio. Con Richard Jewell, egli accosta ancora una volta la Storia alla cronaca attraverso la vicenda di un altro eroe anonimo, ultimo di una carrellata di personaggi straordinari, realmente esistiti, che costellano la sua filmografia recente, e ai quali intende rendere omaggio. Se con il Nelson Mandela di Invictus e il J. Edgar dell’omonimo film con Leonardo DiCaprio l’autore californiano si era concentrato sulle imprese, decisamente diverse per metodi e obiettivi, di due uomini ben noti come il Presidente del Sudafrica e l’ex-capo dell’FBI, i suoi ultimi lavori hanno invece scelto di mettere in luce la grandezza di individui capaci di compiere scelte decisive ed eroiche e di salvare vite umane. Ed ecco allora il comandante Sully, i marine Anthony Sadler, Alek Skarlatos, Spencer Stone di Ore 15,17 attacco al treno, la guardia privata che sogna una carriera in polizia Richard Jewell.
È forse paradossale, e qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte a questo accostamento ma, al di là delle risibili accuse di conservatorismo rivolte soprattutto in passato a Eastwood, è un fatto che quest’attenzione all’uomo della strada avvicina moltissimo questo gigante del cinema mondiale a un autore in apparenza a lui così poco affine come Ken Loach. Per quanto da posizioni radicalmente diverse (socialismo vs. anarchismo con uno sguardo più a destra) i due registi, specialmente negli ultimi rispettivi lavori, sono accomunati dalla grande attenzione rivolta nei confronti dei singoli in lotta contro un sistema ingiusto e persecutorio che non è mai capace di porsi al loro livello e sembra anzi cospirare per favorirne la perdizione.
Pur partendo da prospettive diverse, Richard Jewell è quindi vicinissimo a un personaggio come Daniel Blake, in quanto entrambi sono legati a idee e ideali molto semplici, assimilabili nella comune credenza in un mondo ordinato e a misura di individuo per poi arrivare a scoprire, al contrario, la sua natura complessa e vessatoria. Restando a Richard Jewell, come nel trio di amici di Ore 15,17 attacco al treno, Eastwood e il suo sceneggiatore Billy Ray cercano di dotare il protagonista di un profilo ampio e preciso, indagandone anche il passato, in modo da disegnarne perfettamente la psicologia e la visione del mondo e di fornirne una caratterizzazione a tutto tondo. Per spogliare il suo eroismo da ogni traccia di retorica e di solennità, Clint ci mostra il suo personaggio come quello che in gergo si definisce un dropout, un emarginato, una sorta di bambinone obeso e un po’ ottuso, che ha un solo amico, più o meno nella medesima condizione e con un passato da bombarolo in erba, e vive con una madre a cui è emotivamente legato.
L’aspetto dimesso del protagonista, interpretato magnificamente da un Paul Walter Hauser indimenticabile, che trova qui il ruolo della vita, sembra riflettersi anche nelle scelte di regia che puntano su una messinscena altrettanto priva di orpelli, molto classica, eppure di rara perfezione e pulizia, che trova i suoi momenti più alti nella prima parte, soprattutto nella magistrale sequenza dell’attentato, concepita attraverso una calibratissima costruzione della tensione. La macchina da presa si muove in maniera essenziale e precisa consentendo di conoscere, per tutta la durata della scena, la collocazione dei vari attori in gioco in modo da accrescere, durante lo svolgersi degli eventi, sia la progressione narrativa che la partecipazione emotiva dello spettatore.
Dopo questo inizio da manuale, viene descritta l’odissea, durata 88 giorni, che vede Richard finire nel tritacarne poliziesco-mediatico, stretto tra le spire di “due dei principali poteri del mondo: il Governo degli Stati Uniti e i media”, come dirà il suo avvocato nel corso di una conferenza stampa. Tra agenti dell’FBI e giornaliste a caccia di scoop Jewell, stolidamente convinto della buona fede dei suoi antagonisti, rischia di rimanere schiacciato da un sistema perverso che il regista, con buona pace di chi lo accusa di flirtare con il repubblicanesimo (nel senso di Partito Repubblicano) più deteriore, mette sotto accusa arrivando ad attaccare le massime istituzioni del suo Paese, cui contrappone l’importanza delle scelte individuali e la funzione essenziale della sincerità nei rapporti tra le persone.
Unita alla dimensione più esplicitamente politica, la sceneggiatura ne disegna infatti una più intima e privata, che coinvolge il commovente rapporto tra Richard e sua madre (Kathy Bates, eccellente, che si è aggiudicata l’unica candidatura all’Oscar del film: davvero poco rispetto ai grandi meriti della pellicola) e quello tra il corpulento protagonista e l’avvocato-amico Watson, anch’egli un outsider, cui presta il volto il solito, bravissimo Sam Rockwell. Questa descrizione di affetti umani e intimi, costretti dalle circostanze alla clausura dell’ambiente domestico, è il perfetto contraltare del mondo di fuori, con il chiassoso circo mediatico a cingere d’assedio l’abitazione dell’accusato e il torbido rapporto che lega la polizia federale con la stampa specializzata, ridotta a livello dei peggiori tabloid scandalistici.
Proprio quest’aspetto della pellicola, cioè la circostanza che la giornalista Kathy Scruggs (ora defunta) abbia concesso a suo tempo favori sessuali in cambio di notizie top secret, ha spinto l’Atlanta Journal, il quotidiano che sbatté il “mostro” Jewell in prima pagina, a denunciare gli autori del film e a chiedere invano una ritrattazione. C’è da dire che, al netto delle polemiche, del resto pretestuose, il personaggio incarnato nel film dall’attrice e neo-regista Olivia Wilde resta comunque l’elemento più debole della narrazione, incastrato dapprima in una monoliticità priva di sfumature per poi essere sottoposto a un troppo improvviso, e perciò poco credibile, restyling emotivo. Si tratta, in ogni caso, dell’unico peccato veniale di un’opera ammirevole, non solo per maestria artistica ma anche per rigore etico, dove la fiaccola, simbolo per antonomasia della tanto sbandierata libertà americana, che vediamo stretta tra le mani di un eroico Muhammad Alì, ha valore, secondo il regista, solo se sa trasformarsi in vessillo di giustizia. Per questo, anche per questo, Richard Jewell è l’ennesima splendida prova di uno straordinario cineasta.
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