‘1917’ di Sam Mendes, la grande guerra come un luna park
Armati di mappe, torce, pistole lanciarazzi, granate e pochi viveri, i caporali Schofield e Blake devono attraversare la Terra di Nessuno e trovare il fratello maggiore di Blake, un tenente del 2° Devon. Hanno ricevuto l’ordine di dirigersi a sudest, fino a quando non raggiungeranno la cittadina di Écoust, dove dovranno individuare il battaglione appostato nel Bosco di Croisilles, consegnare al Colonnello Mackenzie una lettera da parte del Generale Erinmore e salvare così centinaia di commilitoni da morte sicura per opera dei tedeschi [sinossi].
Non è certo la prima volta nel cinema recente che un regista mette in atto (o tenta di mettere in atto) l’operazione esteticamente ambiziosa e tecnicamente complessa di girare un intero film utilizzando un unico pianosequenza, senza cioè operare stacchi di montaggio durante la narrazione. Per fare qualche esempio, vi si erano già cimentati Aleksandr Sokurov con lo splendido Arca russa (2002), girato all’interno del Museo Hermitage di San Pietroburgo e, in tempi più recenti, Alejandro González Iñárritu con l’oscarizzato Birdman e il norvegese Erik Poppe con Utøya 22. Juli, che raccontava il massacro sull’isola del titolo compiuto nel 2011 dal neonazista Anders Breivik. Proprio in quest’ultimo caso, il tour de force tecnico serviva a immergere lo spettatore dentro i terribili accadimenti, e a riproporli secondo la loro durata effettiva in modo da portare al massimo stadio la partecipazione emotiva dello spettatore. Nel notevole film di Poppe, una volta iniziata la mattanza del folle sterminatore, non vi era più spazio per alcuna tregua e ci si ritrovava catapultati sull’isola insieme ai ragazzi mentre l’intollerabile ferocia degli avvenimenti prendeva corpo davanti ai propri occhi.
Dal punto di vista delle intenzioni, Mendes sembrerebbe puntare a una medesima esperienza di immedesimazione/immersione da parte del pubblico, seguendo minuto dopo minuto il viaggio di due giovani commilitoni mentre attraversano le trincee, superano cortine di filo spinato, affondano i loro stivali nel fango, si imbattono nelle decine di cadaveri di uomini e animali disseminati lungo il percorso, cercano riparo dentro le baracche, sono vittime di detonazioni scatenate dai topi. Il loro nemico è infatti il tempo, come sottolinea la tagline del film: le due reclute devono raggiungere il 2° Devon prima possibile, in modo da evitare una carneficina. Fin qui tutto (più o meno) bene e, soprattutto nella prima parte, il film tiene, rivelandosi avvincente e ben costruito, così come la scelta operata dal regista, coadiuvato dall’ottimo lavoro del direttore della fotografia Roger Deakins, appare pienamente giustificata.
Purtroppo, man mano che la pellicola va avanti i pilastri estetici su cui si fondava tutta l’operazione cominciano a scricchiolare. Infatti, si percepisce subito che la missione non può essere compiuta nel breve giro delle due ore di proiezione (al punto che il one-shot a un certo punto si interrompe in maniera brusca e netta, per poi riprendere poco dopo, superando addirittura il tempo di una notte) e, soprattutto, viene a galla la scarsa attendibilità della sceneggiatura che inanella una serie di svolte forzate e poco credibili trasformando, tra le altre cose, il gracile e mingherlino protagonista in una sorta di supereroe indistruttibile, la cui resistenza fisica richiede allo spettatore un alto tasso di sospensione dell’incredulità.
Sia chiaro: nel film di Mendes non mancano alcuni momenti molto suggestivi, di cinema assoluto, come ad esempio la splendida sequenza notturna di Écoust, con quelle ombre che si muovono tra le macerie e quel magnifico passaggio dai colori del fuoco a quelli del cielo. Tuttavia, l’eccessivo sfondamento dell’unità di tempo rispetto a quella d’azione determina una divaricazione cruciale tra le scelte estetiche e gli sviluppi narrativi. Tutta l’operazione ne esce, così, depotenziata: le intenzioni iniziali mostrano la corda sfociando nel puro e semplice esercizio di stile, tecnicamente impeccabile e non privo di fascino ma nel complesso sterile e un po’ gratuito dove la narrazione (nel senso di fabula) finisce per rivelarsi nient’altro che un pretesto.
Venendo meno la coincidenza tra unità di tempo e di azione, lascia a questo punto perplessi la scelta di rendere la macchina da presa comunque in continuo movimento anche dove non ce ne sarebbe bisogno, come nell’inserto lirico, peraltro molto bello, del pre-finale in cui il protagonista sorprende i commilitoni ascoltare un canto patriottico intonato da uno di essi. Per questa ragione crediamo che, rinunciando al classicismo della messinscena in favore del massimo dispiego delle nuove tecnologie, questo 1917 sembri avere come riferimento le recenti esperienze del “cinemificio” Marvel. Mendes confeziona infatti un giocattolone spettacolare in cui il campo di battaglia somiglia quasi a una sorta di “luna park” della guerra, definizione che qui mutuiamo dall’ormai famosa intervista rilasciata da Martin Scorsese quando gli è stato richiesto un parere a proposito dei film prodotti dalla famosa casa di produzione californiana. Anche per questo, forse, il pubblico statunitense si è accodato e l’Academy pare aver gradito: grandi incassi e consensi negli Stati Uniti, e ben dieci generose nomination agli Oscar. E chissà che non riesca a portarne a segno parecchie, persino quelle per il Miglior film o la Miglior regia o entrambe. Visti alcuni dei concorrenti in gara, sarebbe davvero troppa grazia.
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