Uragano Topor – parte seconda: La bruttezza salverà il mondo
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Lo spaccato psicologico abbozzato nella prima parte di questa piccola panoramica, è giusto uno schema riduttivo con cui inquadrare (nei limiti di un’analisi a volo d’uccello) la bulimica attività di un artista che si ciba di terrori e sghignazzi. La classificazione, comunque, lascia il tempo che trova perché Topor non è affatto parco o morigerato. Il minimalismo gli fa un baffo a torciglione e la sua linea è grassa come una porchetta allo spiedo, pesante e greve, eppure assurdamente candida, per quanto può essere uno sberleffo alla Morte, perennemente evocata e sodomizzata con mille soluzioni visive.
Lo stesso significato del cognome “Topor” (ovvero ascia da combattimento in polacco) lascia poco spazio a equivoci, ricordando che la violenza, nel suo essere veicolo ambivalente di distruzione, passione e catarsi sia una componente fissa della sua opera. Dall’abbandono della pittura per la grafica, scelta in cui è determinante l’incontro con l’artista concettuale Daniel Spoerri, il nostro Rabelais del pennino, infatti, stabilisce un sodalizio durevole con la satira, che interpreta in maniera libera e trasversale, nonché assolutamente personale. La lettura giovanile dell’Ubu roi di Alfred Jarry, sovrapposta ai propri incubi gli indica una strada espressiva, vicina al surrealismo, di cui si fa interprete dagli anni ’60 in un’accezione selvaggia, da baccante ubriaco, trovando corrispondenza con altri due grandi irregolari della cultura: Fernando Arrabal e Alejandro Jodorowsky.
La sinergia di queste menti fuori dal comune si concretizza nel Mouvement Panique, incarnazione aggiornata ed eversiva del primo surrealismo, ripulito da derive accademiche e riportato in un terreno viscerale, di sperimentazione e di rottura (vedi film come El Topo o il bellissimo La montagna sacra). Il movimento si scioglie nel 1973, la frequentazione delle tematiche surrealiste di Topor, invece scoppia di salute, lasciando che lo interpreti in tutte le sue direzioni possibili, dal lato dadaista della destrutturazione del linguaggio, all’onirismo delle scene più fantasiose e teatrali, alla ricerca alchemica in cui fonde parola e immagini in tautologie visive.
Gusto della provocazione ed elevazione estetica del brutto restano le costanti con cui Topor tracima in ogni ambito creativo, lasciando la sua impronta (o sarebbe il caso di dire “pedata”) in tutti i canali comunicativi che gli sono accessibili. Lo vediamo attraversare lo schermo in veste di attore con registi come Werner Herzog, Raúl Ruiz, o Maurizio Nichetti, mentre sul fronte dell’animazione realizza con René Laloux il lungometraggio fantastico Il pianeta selvaggio, nel ’72. Per il teatro offre la sua inventiva metamorfica per l’opera lirica e non può esserci connubio migliore per le atmosfere lugubri de Le grand macabre di György Ligeti, passerella di creature mostruose, grottesche in cui il suo estro dalla natura bifida, giocosa e ferale, trova un ampio banco di prova.
D’altronde il dualismo lo connota da sempre, anche attraverso l’ossimoro vivente che è il suo stesso viso, una maschera scissa in due parti inconciliabili tra loro. Gli occhi obliqui da fauno spalancati sulle paure che riempiono i suoi disegni, sono eleganti finestre gotiche costretti a sovrastare una bocca larga da batrace, popolaresca e godereccia, sempre pronta alla risata sguaiata.
Un umorismo applicato all’interno di rappresentazioni bucoliche o classicheggianti devastandone l’aspirazione all’equilibrio con un piacere sadico che trasforma la burla in tragedia e viceversa. Per ottenere questo effetto, Topor non risparmia nulla, ricorrendo per raggiungere il suo colpo di teatro a modalità ricorrenti, con la funzione di desacralizzare ogni confine, decenza o forma di razionalità. C’è l’intersezione con cui il naso di Pinocchio attraversa il volto dell’amante nel tentativo di baciarla ne Il bugiardo, oppure quella delle salsicce che penetrano a casaccio il corpo de il guarnito, nonché le anatomie violate de il subalterno, mezzobusto di un uomo che ha una testa secondaria innestata dietro al collo, o ancora la dislocazione del profilo di Ciao bello, in cui il naso del soggetto ritratto, valigia alla mano, saluta il volto sottostante e se ne va via.
Per un contrappasso degno della sua poetica, un’emorragia cerebrale lo stronca a 59 anni, esplodendogli nella mente come una battuta di humour nero particolarmente efferata. La falciatrice pare essersi presa una rivincita sul suo sbeffeggiatore, interrompendo la produzione copiosa e in perenne evoluzione di un artista affamato di vita. Ma la partita è vinta solo in apparenza, morto l’uomo è la sua ospite a dover fare i conti con un pensionante assai rognoso e che ti resta in casa per un eternità. Topor sogghigna sotto i baffi. Sa che ci sarà da ridere.