L’Europa si è dileguata nell’attesa che arrivi la solita miserabile euforia

“Ricordo, però, di aver fatto qualche osservazione a proposito della criminale futilità del tutto: dottrina, azione e mentalità; e sul carattere spregevole di quella posa mezza pazzoide che altro non era se non un impudente imbroglio che sfruttava le acute sofferenze e l’appassionata credulità di un’umanità sempre così tragicamente portata all’autodistruzione.”

Joseph Conrad, Nota dell’autore per L’agente segreto

 

 

Possiamo sorvolare mari e terre, scrutare il pianeta dai satelliti, calcolare misure e distanze utili a qualunque cosa, ma le uniche linee di confine che ci restano dentro sono quelle di una perpetua e inevitabile separazione dalla salvaguardia. Il perimetro di protezione ha i contorni di un annientamento che ha inizio dai comportamenti e viene decretato dai banchi delle decisioni. Non basteranno le rimozioni dei divieti, la riapertura dei luoghi pubblici, né lo scampato pericolo. Non basterà il via libera alla vita per insabbiare le prove dell’ennesimo atto di ipocrita commiserazione a cui si è stati costretti a ricorrere. Ancora una volta, per non sentirsi soli, è stata presa sotto il braccio la miseria.

“Lo abbiamo fatto per l’Europa”, “Ce lo ha chiesto l’Europa”, “Era necessario per l’Europa”. Quante volte lo abbiamo sentito. Il gigante sui trampoli è passato a incutere il timore reverenziale delle menzogne. Non è bastato, all’Europa, un secolo di inganni. Non sono bastati gli imperi eretti sopra le bugie, caduti, irrimediabilmente, sotto i colpi di altrettante false verità.

Quello che l’Europa, quest’entità senza volto – come se non fosse stata già abbastanza la retorica delle nazioni – erta a educanda del nuovo millennio, ha chiesto per decenni, con la complicità di governi formati da politiche senza visioni, da millantatori e da farabutti, governi, niente più che governi, adesso come si sta restituendo? Cosa sta restituendo? L’unica cosa che riesce a fare è sospendere se stessa. Pure i trattati, le parole nobili ratificate con l’orizzonte limpido, le promesse a uomini non ancora nati, il dolore di mezzo secolo di guerre e di milioni di morti prima sono finiti sotto i colpi della finanza coincidente con il potere politico – un medioevo di portata continentale – e poi sono stati mortificati da tutti quei paesi che fino a ieri avevano subito la rappresaglia e la persecuzione, che avevano chiesto aiuto ad altri paesi, e che oggi spargono di muri e reticolati le frontiere che non sono più militari, che non si leggono più solo sulle carte geografiche, ma sul cuore delle persone. L’educanda che per così tanto tempo aveva giustamente rivelato, denunciato, processato e scongiurato le azioni di guide politiche disumane, ha rievocato tutti i suoi fantasmi. Uno per uno, senza esclusione. Quando tutto sarà finito, sarà l’ora dell’ebbrezza del sollievo o di una disarmante resa dei conti?

Ai primi cenni di emergenza, le prime risposte sono state la malafede e la confusione. Alcuni burocrati della finanza hanno rammentato la sacralità dei conti, mentre dei leader politici si ostinavano a predicare e praticare l’arte della vita, invece che il diritto alla vita. Sì, perché per gli inglesi è stato meglio vivere spensieratamente fino a un istante prima dell’irresponsabilità. Perché per qualcuno a capo di una nazione il virus non avrebbe interferito nelle abitudini quotidiane. Perché in Francia si poteva tranquillamente votare. Perché in piena crisi italiana e con altri paesi europei ormai consapevoli (almeno si immagina sia così) di doverla affrontare anche sui propri territori, a Liverpool andava giocata a porte aperte una partita con tanto di migliaia di tifosi spagnoli al seguito. Perché l’UEFA si è convinta solo quando sono iniziati a spuntare come funghi i casi di positività di molti calciatori a sospendere tutte le competizioni e a prendere in considerazione l’ipotesi di rinviare al prossimo anno altri eventi internazionali. Perché ogni paese non ha creduto all’altro, perché ogni organizzazione di potere ha agito nella diffidenza e in competizione con le altre.

Una declinazione disorientata prima di tutto perché avallata dalla presunzione e l’avventatezza di chi non sa, o vuole continuare a nasconderlo, che il sistema tirato su a furia di incanti non è in condizione di affrontare nemmeno il principio di quest’emergenza. In barba alle vittime, di tanto in tanto volgarmente derubricate a morti “vecchie”, inevitabili perché malate. Del resto, cosa ci sarebbe da aspettarsi da un luogo, l’Europa, che in questi anni non ha saputo difendere i “grandi valori” che, però, dovrebbero sempre e prima di tutto reggersi sulla difesa dei più deboli. E, l’Europa, in fondo, quanti e quali deboli ha saputo difendere?

L’epopea della vittoria suonerà un insopportabile rumore sopra un grande interrogativo di sconfitta. Perché, per responsabilità così ampie, così antiche, dalla località più piccola fino alla “giurisdizione” più grande, fino all’Europa, sarebbe stato possibile contare su un ospedale in più? Sarebbe stato così difficile affidarsi a più medici, più infermieri, più ambulanze, più macchinari, più posti utili? La glaciale spietatezza con cui per anni è stata sentenziata l’incondizionata fedeltà ai bilanci e a questa omologazione finanziaria, in realtà, a quali ideali si è ispirata? A chi hanno fatto davvero appello le classi politiche nell’epoca in cui i contingenti militari si spostano in silenzio e le guerre tra le grandi potenze economiche vengono combattute ancora più in silenzio, talvolta sacrificando aree periferiche povere e lontane? In certi casi, altrettanto invisibili. Come un virus.

A quali valori risalgono le condizioni che hanno generato le cattive empatie per nuove forme di fanatismo, per il razzismo, le intolleranze e le diffidenze come reazioni primarie davanti ai più drammatici stati di necessità? Dentro una civiltà malfidata e in psicosi da assedio, abbiamo assistito al posizionamento privilegiato della ragione monetaria fine a se stessa, il che vuol dire utile a pochi, davanti alle sensibilità. Le istanze più delicate e il senso più profondo della contestazione sono finiti nelle mani di compagini politiche mistificatorie e di fenomeni d’occasione. E questo, in Europa, dove nelle epoche precedenti la costruzione di certi modelli era passata sul serio per la parola conquista, è servito a chi avrebbe dovuto subire un’autentica e lucida contestazione senza via di scampo. È servito perché andava distrutto questo, la credibilità della parola no. E quel che è peggio, perché non poteva accaderci di peggio, è l’inevitabilità della condanna all’unica facoltà in dote quando tutto sarà finito. Correre in strada per lasciarsi andare al sollievo di essersela cavata. Senza chiedere conto, a noi stessi e a chi di dovere. Niente, oltre alla gioia dello scampo.

Quando tutto sarà finito, e il finito non significherà finito per tutti, l’euforia prenderà il sopravvento. Arriverà quel via libera seguito da canti e da festeggiamenti. In pochi istanti, una lapide invisibile sarà attraversata come uno sbiadito velo di luce, e il dolore più flebile toccherà soltanto a chi in questa storia avrà perduto qualcuno. Quello stesso dolore finirà nelle statistiche di un numero che qualcuno presenterà come sopportabile, lasciando posto a un qualche genere di soddisfazione invece di soffermarsi a riflettere sul fatto che una quantità piccola è stata in grado di terrorizzare qualcosa che, probabilmente, avrebbe avuto il dovere di rendere ancora più piccola. Davanti a tutto questo c’è molto poco di cui andare fieri, prima ancora di liberarsi, regalandosi un prologo cantando affacciati alla finestra.

Immagine di copertina: Pablo Picasso, Il vecchio chitarrista cieco

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