Peppino Girella di Eduardo De Filippo: il disperato raffronto tra filiazione e paternità
Erano gli anni in cui la RAI lanciava quelle produzioni che, cinquant’anni prima, avrebbero anticipato il successo delle serie televisive che oggi sono al centro di importanti investimenti da parte di grandi case di produzione internazionali. Nel 1964, Sandro Bolchi dirigeva I miserabili, miniserie televisiva tratta dall’omonimo romanzo di Victor Hugo. Cinque anni dopo, sempre sotto la regia del regista di Voghera, I fratelli Karamazov sarebbero arrivati sul grande schermo italiano.
Prima ancora, però, de I miserabili e del capolavoro di Dostoevskij, Eduardo De Filippo, nel 1964, usciva con il suo sceneggiato televisivo a puntate scritto insieme a Isabella Quarantotti. Peppino Girella e la Napoli dei bassi e della disoccupazione ebbero il volto di un ragazzino attore preso dalla strada. Giuseppe Fusco, figlio di una signora che lavorava come domestica a casa di Eduardo, interpretò il protagonista di quella vicenda che molti anni dopo sarebbe diventata celebre grazie ad alcune scene entrate nell’immaginario collettivo frequentemente adottato dalle misure social dei nuovi mezzi di comunicazione. In particolare, la scena del “È cos ‘e niente” sarebbe stata riproposta per sottolineare l’incauto vittimismo di una civiltà popolare indebolita dalla stridente coesistenza di privazioni e tentazioni.
Tuttavia, diventerebbe superficiale ridurre a questo il racconto di quel Peppino Girella che non è soltanto il bambino di una Napoli in cerca di lavoro, di una città in anticipo sui tempi e sorpassata dal tempo, ma che rappresenta la proiezione allegorica di un desiderio di affrancamento che nell’epoca del dopoguerra coinvolge le frazioni familiari e sentimentali che compongono l’interiorizzazione di un mondo che vende pretese e svende illusioni.
Il cast che Eduardo porta in scena per Peppino Girella attinge dal gruppo di attori che in quegli anni già fanno parte del suo percorso di regista e di attore. Il teatro studio si sposta ancora una volta sullo schermo televisivo, senza compiere sforzo alcuno per risultare altrettanto prodigioso. Con esso brillano Luisa Conte, Ugo D’Alessio, Carlo Romano, Giuliana Lojodice, Gennaro Palumbo, Angela Luce, Rino Genovese, Nina De Padova, Pietro Carloni, Enzo Turco e altri attori che, come da protocollo nel lavoro di Eduardo, rasentano la perfezione nella grande sinfonia di espressività e tempi comici. Del resto, sia perdonata la considerazione del tutto personale, oggi sarebbe molto difficile, se non impossibile, raccogliere una simile quantità e qualità di attori. Commovente, dal gusto popolare, la colonna sonora di Romolo Grano.
Peppino Girella narra la vicenda di un ragazzino napoletano che, resosi conto delle difficoltà economiche della sua famiglia, notando il malumore del padre davanti alla sua incapacità di trovare lavoro e la sofferenza della madre, divisa tra il suo, di lavoro, misero e faticoso, e le faccende domestiche, riesce a rimediare un’occupazione che premia la sua intraprendenza, consentendogli di incidere in maniera notevole sul bilancio familiare. La sua spigliatezza, a un certo punto, lo pone in posizione di privilegio e di ammirazione, adombrando la figura paterna in un angolo in cui il suo genitore inizia poco a poco a nutrire invidia e gelosia nei confronti del figlio. Da qui, l’inversione della filiazione che origina anche l’idea che Eduardo escogita dopo aver letto una novella di Isabella Quarantotti, intitolata Lo schiaffo, in cui il bambino protagonista subisce un rimprovero eccessivo, seguito da un ceffone (da qui il titolo) del padre, frutto più della rabbia dell’uomo davanti al superamento del figlio che da un’attendile proporzione della punizione.
Quella del giovanissimo Peppino è la commedia civile di una Napoli bistrattata e, in parte, accomodata in maniera rassegnata dentro il disagio procuratole tanto dalla sua impotenza quanto dalla terra bruciata che le viene fatta intorno da velenosi e umilianti luoghi comuni. “E io restavo sempre il napoletano che sapeva cantare le canzoni”, racconta Andrea Girella (Eduardo) lamentando le diffidenze affrontate durante la sua giovinezza.
L’impronta morale che Eduardo imprime al suo sceneggiato, di fatto, trasfigura dolcemente un’umanità che rievoca dei personaggi usciti da un’opera di Brecht. Un affresco essenziale in tinte soffuse e in toni cupi e angosciati nei suoi interni e più gioviale e fiducioso negli esterni nei quali una Napoli votata alla buona volontà, in fondo, ospita con un pizzico di ingenerosità chi vorrebbe viverla secondo quelli che ai suoi occhi non appaiono più come diritti sacrosanti, ma distanti e irraggiungibili privilegi. Le figure femminili, ciascuna assegnata a un protagonista maschile come riferimento conscio e inconscio sul piano psicologico, mitigano e dirigono i tormenti dei loro uomini con la saggezza, l’intelligenza e la dolce ferocia delle matrone anteguerra. Ne esce una polifonia sentimentale tipica di un impianto familiare ancora fondato sulla condivisione e il sacrificio.
Anche il piccolo Peppino, caduto nell’infatuazione per una ragazza, Loredana (Maria Teresa Vianello), più grande di lui e a sua volta corteggiata dall’idolo del ragazzino, un giovane di belle speranze (Carlo Lima) già promesso in sposo a un’altra donna (Giuliana Lojodice), fronteggia i primi momenti di formazione individuale presso quella macchina di insegnamenti che a volte mescola le carte delle illusioni e delle delusioni. Pure Peppino, scaltro e indipendente, sperimenta l’amaro della vita attraverso l’ambizione di un amore irrealizzabile. In Peppino Girella, l’aspirazione all’irraggiungibile è una condanna inflitta a ogni personaggio. Ricco o povero, ambito o ignorato.
A un certo punto, alcuni dei protagonisti maschili, in particolare i tre amici fraterni (Eduardo, Enzo Cannavale e Ugo D’Alessio), sono costretti ad affrontare gli effetti drammatici della disperazione. Fraintendimenti, furbizie e vani principi mettono a repentaglio la loro amicizia, fino al rischio di trasformarli, ingiustamente, in uomini da galera. Tuttavia, Eduardo grazia i tre personaggi, restituendo loro, in maniera del tutto legittima, la grande dignità che la loro specchiata e profonda moralità salvaguardia dalla calunnia di chi, in primis il perfido cognato di Andrea, il cavalier Dabbene (Rino Genovese), vede nei tre bisognosi la malafede di chi adotterebbe pure le peggiori iniziative per sbarcare il lunario. Ecco che, di fatto, l’effettualità dei conflitti tra i personaggi diventa interiorizzante, solvendo a un giudizio che, invece, proviene da un esterno lontano e altrettanto diffidente.
Il momento liberatorio giunge relegando la condizione di disoccupati dei tre, premiandoli con la riscoperta di quella rendita corrisposta solo a se stessi che è diritto dell’uomo sopra ogni ordinamento e che, al di là delle epoche e dei suoi drammi civili, va sotto il nome di onestà. Peppino Girella è l’onestà bambina che soltanto da adulta saprà quanto sia stata fedele alla sua precaria, disagiata e mortificata paternità.