‘Mia madre’ di Nanni Moretti, nel nome della madre
A cosa pensi, mamma?
A domani.
La regista Margherita (Margherita Buy) sta girando un film politico ambientato in una fabbrica occupata dagli operai che non vogliono essere licenziati. Intanto sua madre è ricoverata in ospedale in grave pericolo di vita, accudita premurosamente da suo fratello Giovanni (Nanni Moretti). Margherita deve inoltre confrontarsi con la fine di una relazione sentimentale, i capricci della bizzosa star americana del suo film, l’attore Barry Huggins (John Turturro) e le difficoltà scolastiche ed esistenziali della figlia adolescente [sinossi].
Nell’edizione di Cannes del 2012, a trionfare aggiudicandosi la Palma d’oro fu lo splendido Amour di Michael Haneke, storia di due coniugi ottantenni, interpretati da Jean-Louis Trintignant e Emmanuelle Riva, che si trovano costretti a fronteggiare la malattia degenerativa di uno di loro, la donna, amorevolmente assistita dal marito sino alla tragica conclusione. Presidente di giuria in quell’occasione era Nanni Moretti che un anno e mezzo prima aveva perso l’anziana madre Agata Apicella, professoressa di lettere al ginnasio. Tre anni dopo il regista trasporta al cinema questa sua vicenda personale e, attraverso la Buy, mette in scena se stesso per interposta persona, tracciando il resoconto diaristico e frammentato di un momento difficile della sua vita.
Sia chiaro: eccezion fatta per il tema della malattia, Amour e Mia madre sono due opere diversissime. Il primo è un film asciutto, claustrofobico, durissimo e implacabile, girato in un solo ambiente (il grande appartamento dei due benestanti coniugi) mentre il secondo è un’opera dolorosa ma non disperata in cui il buio e la cupezza della stanza d’ospedale si alternano con gli esterni sul set e per le strade dove si segue il peregrinare della protagonista, un personaggio che, con le dovute differenze, condivide il medesimo smarrimento del cardinale Melville del lungometraggio precedente di Moretti, il bellissimo Habemus Papam.
Tuttavia, a uno sguardo ravvicinato, quello che, in attesa dell’arrivo in sala del recente Tre piani, è l’ultimo lungometraggio di finzione diretto da Nanni Moretti, in concorso a Cannes nel 2015, non è soltanto un film sulla malattia, la perdita e l’inevitabilità della sofferenza di coloro che restano. Mia madre somiglia più a un dramma corale ed esistenziale dove tutti i personaggi sentono di essere al posto sbagliato e sono alla ricerca di un altrove che pare irraggiungibile se non a patto di fare scelte difficili e radicali. Così, Margherita vorrebbe probabilmente vivere sempre su un set cinematografico, lontana dalle insanabili differenze che percepisce tra il mondo della fantasia e quello della fatica del vivere quotidiano; la “star” Barry Huggins chiede, all’opposto, di fuggire dal set e “rientrare” nella realtà; il fratello Giovanni sente forte la necessità di lasciare il lavoro; la figlia di Margherita vorrebbe cambiare scuola mentre la madre, ovviamente, fantastica di lasciare il letto d’ospedale per fare una passeggiata al chiaro di luna. In questo senso, appare emblematico il titolo del film che la protagonista sta girando, Noi siamo qui: infatti, gli unici a sentirsi perfettamente al loro posto nella realtà sono gli operai alle prese con l’occupazione della loro fabbrica, in lotta per non perdere il posto di lavoro: solo chi è dentro la finzione è al posto giusto. Ma, per quanto estremamente realistico, Noi siamo qui è appunto un film: ancora una volta l’arte, sembra suggerire Moretti, appare più perfetta e compiuta della vita. È forse questa la ragione della reiterata richiesta della regista all’attore protagonista affinché egli “interpreti il personaggio ma gli stia anche accanto”, così stabilendo una superiorità innanzitutto quantitativa, prima ancora che qualitativa, della finzione rispetto alla realtà.
Per questa ragione, Mia madre è solo all’apparenza un’opera semplice e di facile lettura (cosa ci può essere di più immediato della descrizione della malattia e della morte incombente di una persona cara?) rivelandosi in realtà assai complessa e stratificata. Sin dagli inizi, infatti, la protagonista è assalita dagli incubi. Questi sono, in un primo tempo, inseriti nella narrazione in maniera chiara e separata rispetto alla realtà, con qualche caduta nel didascalismo, come nella sequenza della fila davanti al cinema romano Capranichetta per vedere Il cielo sopra Berlino di Wenders. Successivamente, la realtà, il sogno, la fantasia e persino ciò che avviene sul set di Margherita sembrano confondersi e mescolarsi riempiendo il film di fertile ambiguità e regalando allo spettatore più di un momento di piena e sincera commozione e un finale che va dritto al cuore e fa centro.
Molto ben interpretato da un’intensa Margherita Buy, un istrionico John Turturro e una memorabile Giulia Lazzarini (nel ruolo della madre), il dodicesimo film di finzione di Moretti regista è, pur con qualche trascurabile difetto, un’opera intima ma non chiusa, dolorosa eppur serena, profonda ma non intellettualistica, impregnata di malinconia ma non priva di tenerezza e qua e là di irresistibile buffoneria. È qualcosa di più di un gran bel film: è una buona azione.
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