‘La vita di Adele’ di Abdellatif Kechiche ovvero il gioco dell’amore e del caso
Adele, giovane studentessa di liceo appassionata di letteratura, vive le sue prime esperienze sessuali e sentimentali con Tomas, un giovane coetaneo compagno di scuola. Tuttavia, la ragazza è stranamente inquieta. Un giorno, dopo aver fatto tardi a un appuntamento, vede per strada due ragazze abbracciate e rimane colpita e affascinata da una di esse, Emma, una giovane artista con i capelli tinti di blu che turba misteriosamente i suoi sogni. Una sera, Adele va con un amico in un locale lesbo e rivede Emma, con la quale beve insieme un drink. Qualche giorno dopo, Emma va a prenderla fuori scuola. Le due ragazze fanno una passeggiata e da quel momento cominciano a frequentarsi scoprendo fatalmente una reciproca attrazione.
La Vita di Adèle, tratto dal fumetto Il blu è un colore caldo di Julie Maroh, è il quinto lungometraggio del premiatissimo regista franco-tunisino Abdellatif Kechiche, il cui personale palmarès conta già una Palma d’Oro vinta proprio con questo film, un premio a Venezia come miglior opera prima nel 2000 per Tutta colpa di Voltaire e un Leone d’argento nel 2007 per Cous Cous, ex-aequo con Io non sono qui di Todd Haynes. Con i primi due capitoli de La Vita di Adèle (destinati a rimaneere anche gli unici), Kechiche conferma la sua ossessione spasmodica per la fisicità e la carnalità, un interesse (se così lo si può chiamare) che non pochi problemi gli ha procurato con quella che è, a oggi, la sua ultima opera, Mektoub: Intermezzo. Con questo film, infatti, l’anno scorso il regista ha scandalizzato il Festival di Cannes con la lunga sequenza di cunnilinguus, della durata di dodici minuti, che ha messo in imbarazzo il Delegato generale Thierry Frémaux e, soprattutto, la giovane attrice Ophélie Bau. Anche La Vita di Adèle, acclamato al momento della presentazione sulla Croisette, è stato poi oggetto di una serie di polemiche, innescate dalle due protagoniste del film, Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos, che hanno accusato il regista di essere sul set una specie di tiranno. “Un’esperienza orribile” ha dichiarato alla stampa la Seydoux.
Andando alla sostanza e al contenuto dell’opera in questione, e facendone un esame il più possibile scevro da considerazioni e condizionamenti di carattere morale, bisogna riconoscere a Kechiche di avere realizzato un lavoro che, per quanto ad avviso di chi scrive un po’ sovrastimato e pur con i suoi limiti, si presenta davanti allo spettatore come materiale vivo, pulsante, appassionato e coinvolgente. La Vita di Adèle è un film di sospiri e sudori, di corpi che si baciano, si desiderano, si abbarbicano l’uno con l’altro facendo l’amore a lungo e con frenesia (per quanto le scene di amplesso nel loro inseguire il massimo realismo possibile, rischiano di risultare prolisse e di allungare a dismisura la durata del film), mangiano con gusto, ballano, nuotano, lottano, si picchiano, addirittura posano per diventare quadri e, così, eternarsi, in un’ansia di vita che rischia di sfociare inevitabilmente nella disperazione. E la macchina da presa è lì, a ridosso dei personaggi e dei loro corpi, li segue, li tallona, riprendendoli quasi sempre in primo piano, in un’azione di pedinamento che coglie tutta la fisicità del loro comportamento, così costringendo le due bravissime protagoniste a esibirsi in una gamma notevolmente variegata di espressioni e di registri interpretativi.
Tuttavia, sarebbe ingiusto ridurre il film a questo aspetto: La Vita di Adèle dimostra un’ottima capacità, da parte di Kechiche, di mettere in scena un racconto in cui il cinema dialoga in maniera proficua con le altre arti. Infatti, soprattutto nella prima metà, più armonica e priva di sbavature rispetto alla seconda, i personaggi entrano in contatto e scambiano opinioni su letteratura, cinema, teatro, pittura facendo entrare nel racconto un’ampia gamma di riflessioni. Si passa così dalla filosofia esistenzialista di Sartre (bellissimo il dialogo sulla panchina in cui Emma illustra alla più semplice Adele la differenza tra esistenza ed essenza secondo l’ottica sartriana), alla perversione di Choderlos de Laclos, dalla sottigliezza di Marivaux (autore già citato nel secondo film di Kechiche, La Schivata, probabilmente la sua opera migliore), alla riflessione sui corpi emaciati di Egon Schiele contrapposta alla ricchezza cromatica di Gustav Klimt.
Un posto a parte merita poi Picasso, inserito non a caso durante la prima conversazione tra le due future amanti: anche il grande artista spagnolo ha avuto, infatti, il suo periodo blu, il colore freddo (e al contempo caldissimo) dei capelli di Emma. E poi il cinema, con la memorabile danza di Louise Brooks, la splendida Lulù de Il vaso di Pandora (1929), capolavoro muto di Georg Wilhelm Pabst, che si vede durante la scena del party, il teatro con Antigone di Sofocle e le riflessioni del poeta transalpino Francis Ponge sul vizio come componente insita nell’animo umano. Ed è probabilmente proprio questo il merito maggiore del film, questo suo raccontare e disvelare la vita attraverso l’arte ancor più che nella storia d’amore che, per quanto l’impegno delle due protagoniste si sforzi di renderla appassionata e struggente, viene osservata dal regista con uno sguardo morboso, emotivamente distaccato, intellettualmente perverso. Alla fine delle tre ore di visione, che avrebbero senz’altro richiesto qualche potatura, si resta affascinati dalla quantità di materiale culturale sviscerato dal regista come contorno della storia principale ma le immagini che, a saperle guardare non mentono mai, fanno avvertire tutto la fatica della costruzione e restituiscono, insieme all’ammirazione, una strana sensazione di disagio.
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