Dopo “Mani pulite” assisteremo anche a un Bocche e bacchette pulite?
Pochi anni dopo la caduta del comunismo, una grande operazione giudiziaria cancellò, in parte, una classe politica e, secondo una maniera di dire, quello fu il passaggio dalla prima alla seconda repubblica. Non è l’incipit di un romanzo, ma la soggettiva sull’inizio di un momento che, in maniera rapida e violenta, consegnò la politica italiana, e non solo quella, alla guida di uomini politici che avrebbero introdotto nuovi segni e nuovi linguaggi. Non per questo, però, dei migliori. Una mauvaise époque piombata con insidiosi e ambigui proclami a incarcerare l’umanesimo.
Durante questi mesi di quarantena, un sogghignante e sgradevole linguaggio ha condotto la gestione pubblica dell’emergenza. Di fatto, un insulto ai cittadini. Sì, perché la necessità, quella reale senza ombra di dubbio, messa lì a reclamare dei cambiamenti che da qui a poco saranno posti in risalto, è stata sostanzialmente elusa e, per certi aspetti, superficialmente solo accontentata.
Quel linguaggio ha rivelato le qualità e le sensibilità di politici che alla fine di questa vicenda saranno pure proclamati come salvatori della patria. Le recenti dichiarazioni del governatore della Campania, quelle di un ex presidente del consiglio (perdonatemi se non riesco a scrivere queste cariche con la maiuscola), quelle del governatore della Lombardia, tra la più volgare ironia e la posa da televendita, hanno scandito quanto di più sgradevole si potesse ascoltare, fino a qualcuno che si è pure avventurato in maniera maldestra e fuori luogo tra i pensieri di chi non c’è più. Quel linguaggio che è stato a lungo sfoggiato anche sui social network e in televisione da parte di qualche leader politico seriamente candidato a diventare primo ministro, che, a ben ricordare, si era già ben distinto per razzismo e per disprezzo nei confronti di una parte degli italiani e di molti stranieri. Facciamo prima a dire che si è a lungo contraddistinto per razzismo e disprezzo punto e basta. Quel linguaggio di leader politici, anche di donne, col revisionismo pronto, il negazionismo d’occasione e col Cristianesimo da crociata.
Una lunga sequenza di inesattezze, offese, insulti, volgarità, infantilismi che potrebbero essere raccolti in un’antologia della grettezza degna di quest’epoca. Altro che i tempi in cui la dichiarazione politica, pure la più subdola, proveniva da chi insegnava nelle università e competeva coi filosofi. Del resto, non ci si può aspettare di meglio da un periodo in cui vengono considerati giornalisti e scrittori autorevoli certi figuri che non si capisce quale tipo di contributo abbiano offerto alle loro discipline. E come potrebbe essere altrimenti per una società in cui i vertici accademici invitano personaggi vuoti, insignificanti e sgrammaticati a parlare nelle università, a incontrare gli studenti nelle scuole, a porsi come riferimenti culturali (per quanto sia convincente la parola cultura) solo perché fanno tendenza e godono di quell’audience di nuova generazione formato dai veneratori che hanno elevato il web a divinità, dando, per l’ennesima volta, una dimensione a dio.
In questi due mesi abbiamo soltanto assistito al timore delle cose. E non solo a causa del virus. I due mesi di “clausura” sono stati l’unico metodo possibile perché il sistema li ha ritenuti tali per una ragione precisa. Il sistema si è difeso perché non poteva cambiare. Non può e non vuole cambiare. Per affrontare realmente quello che sta accadendo avrebbe dovuto prima di tutto rivedere se stesso, invece che tentare di agire sui comportamenti e le abitudini delle persone a colpi di decretelli incerti e deboli come il pensiero odierno. Decreti che mescolano la disciplina dell’obbedienza e la discrezionalità interpretativa. Paradosso non poco pericoloso. Addirittura, in certi punti dei decreti emergono momenti invocativi. Un elemento insolito nell’impianto della legge.
Un decreto dovrebbe incidere sulla sanità, sulle risorse, sulle strategie da stabilire e da far funzionare rapidamente. Dovrebbe imporre, quello sì, di trovare danaro dove c’è tanto danaro e non di sacrificare chiunque e comunque con quell’intendimento vagamente orizzontale, e solo apparentemente democratico, che guarda tutti allo stesso modo soltanto quando gli fa comodo. Ecco, a proposito dei cambiamenti di cui sopra, un decreto dovrebbe rivisitare la funzione di tutti quegli strumenti (perché sono nati, e avrebbero dovuto restare tali, come strumenti) che un certo capitalismo ha trasformato in soggetti attivi e dominanti. Quelli che dovrebbero essere al servizio dell’uomo e non l’uomo al loro servizio.
Quanto tempo s’è perduto dietro inezie e pretesti per fare polemiche (i corridori in strada, le passeggiate nel parco, come e quando portare a spasso gli animali), piuttosto che adoperarsi per l’emergenza laddove sarebbe stato indispensabile e oggettivo farlo, sia nel rispetto e nella gratitudine per chi ha dato la vita per salvare altre vite e per chi è rimasto a lungo in casa per consentirlo. Forse, chissà, se qualcuno potesse parlare, chiederebbe di migliorare le cose che non si sono fatte trovare pronte. Spesso, da qualcuno di quei politici citati, i cittadini si sono pure dovuti sottoporre alla mortificazione, quasi come se il virus si fosse scatenato a causa loro.
Tutti segnali di un sistema che non vuole cambiare, e che vuole affrontare questa situazione continuando a imporsi come se stesso, ignorando, o fingendo di farlo, che se ci troviamo a questo punto, la prima responsabilità è sua. Come quei modelli cosiddetti d’eccellenza che si sono fatti credere tali fino a due mesi fa, in luogo di quel fraintendimento per cui eccellere vuol dire brillare al sole, mostrandosi efficienti per pochi eletti, quando, invece, la vera eccellenza, soprattutto per tutto quanto riguardi l’assistenza alle persone, è tale quando funziona al buio e per tutti. Quando senza fare sfoggio di sé, si fa trovare pronta senza allarmismi e avvilimenti. Non c’è niente di più discriminante che far passare l’élite per eccellenza.
Tuttavia, l’evolversi dell’epidemia ha chiamato alla ribalta anche la derisione di tutto questo, sì, una derisione latente e sottile, con un reddito di gradimento (quello sì che ha funzionato) alimentato da chi gli è andato dietro addirittura con ammirazione. Tutti, o quasi, abbindolati per cabaret. Come se certe esperienze recenti non fossero state abbastanza. Del resto, come sarebbe stato altrimenti per una civiltà che ride di tutto e ammette il kitsch come forma di spettacolo. E non mi riferisco alle “buone cose di pessimo gusto” di Guido Gozzano, come quelle de L’amica di nonna Speranza o come quelle delle case di un tempo, di quando certi oggetti conservavano la dignità di ricordi profondi – ma questo sarebbe un altro discorso ed è meglio che non mi dilunghi – ma del kitsch che a vederlo mette a disagio, rimpicciolisce. Di quel cattivo gusto che scaraventa l’essere umano nella percezione di una dimensione microscopica e umiliante. Eppure, sebbene non mi turbi chi straparla e scantona, mi lascia più perplesso chi apprezza. Pure il grido è un’arte. Le sue ottave sono sottili e difficili da raggiungere e, a volte, temo che a essere guasti siano gli orecchi.
A proposito di risate, torna in mente una novella di Luigi Pirandello dal titolo C’è qualcuno che ride. In questo racconto si narra di una specie di ricevimento che pare rassomigliare a un funerale. A un certo punto, si sente qualcuno che ride. La risata, che non si capisce da chi provenga, suscita un certo scandalo che, però, si somma alla tensione dovuta al fatto che in una stanza sono riunite delle persone che stanno discutendo in segreto di una grave decisione da prendere. Nel frattempo, la folla presente al ricevimento individua in una ragazza bionda che corre la provenienza di quella risata. Con lei, che continua a ridere, stanno correndo via anche il fratello e il padre. Raggiunti in una stanza vicina, i tre scappano dopo aver temuto l’ira dei presenti che, nel frattempo, hanno iniziato tutti a ridere.
Le interpretazioni di questa novella la leggono come una satira contro il regime fascista. Gli invitati rappresentano le persone che reggono una maschera, gli uomini che discutono in disparte sono quelli che detengono il potere e la famiglia che fugge ridendo è la parte ingenua e spontanea della società. In un apparente gioco di imitazioni, la risata si trasferisce dal candore della ragazza alla feroce moralità degli invitati che, da ipocriti, impongono come un severo castigo la loro risata aspra e sarcastica.
Una volta, Pirandello a proposito del regime fascista disse: “Questo regime è un tubo vuoto, che ognuno può riempire di ciò che più gli aggrada. I vecchi conservatori ci vedono il ripristino dello Stato, i nazionalisti il culto della patria, i liberali l’ordine, i socialisti la corporazione, gli intellettuali la feluca e lo spadino dell’accademico, o alla peggio il sussidio del Minculpop. Un simile regime, chi può aver interesse a buttarlo giù?” In questo momento, comunque, c’è ben poco da ridere. Men che meno con una risata che sappia di castigo.
In copertina, Umberto Boccioni – La risata