Ci sono quasi trentamila morti a ricordarci che il dopo è in prova
Ricordate quando in una piazza San Pietro deserta il papa ha detto che si iniziava a vedere un dopo già cominciato? Quel “dopo già cominciato” è arrivato. Dietro ci sono quasi trentamila morti. In Italia, sapendo che qui e nel mondo non abbiamo ancora finito. Mentre si registrano le inquietanti denunce e le testimonianze sulle RSA, ci sono persone che ancora aspettano notizie sui loro familiari estinti. Le aspettano dalle case di riposo e dagli ospedali. Perché sono tanti i “congiunti” che sanno soltanto una cosa. Che hanno perso padri, madri, figli, fratelli, sorelle, mogli, mariti, amici a causa del coronavirus. Nonostante mille dubbi e contraddizioni abbiano sepolto tante di queste persone, per i loro familiari a portarseli via è stata una parola. La stessa parola che potrebbe seppellire pure le responsabilità. Le carte saranno rinvenute dal fango per essere rinchiuse a lasciare che sia lo scricchiolio dell’asciutto a sgretolarle per sempre.
Per adesso, quelle persone non hanno altro, se non una grande interdizione alla verità e questo live a cui hanno preso tutti parte, con notizie e aggiornamenti talvolta inutili e fuorvianti. Pure i medici, pure gli scienziati, di tanto in tanto, non si sono sottratti allo statuto dello show. Ci sono quasi trentamila morti.
Adesso che è partita quella che hanno decretato come “Fase due”, è ufficialmente cominciato quel dopo che per il papa, monito sacrosanto, era già iniziato. È un dopo che è sempre esistito, e non da adesso mette al mondo la miseria e tutto quello che questa parola si porta dietro. Lo fa sotto casa nostra, nella strada accanto, nella stessa città e nel resto del mondo. Lo fa per quelli che vanno al banco dei pegni fino a quelli per i quali la sopravvivenza oggi ha un ostacolo in più. Lo fa dal cemento delle metropoli alle foreste indigene. E non sappiamo quando finirà. Non si è mai saputo. Quando siamo venuti al mondo, già c’era. Noi sì che siamo arrivati dopo, il dopo che è dopo e basta. Ogni tanto, ricordiamocelo. E ce lo dobbiamo ricordare in nome e per conto di chi questo dopo dovrà viverlo peggio di prima, per chi si lamenta perché ha ragione e deve pure sentire chi si lamenta senza averne diritto. Ci sono quelli che di danaro ne hanno tanto, ma dicono che è stato un brutto momento, riferendosi al fatto che il loro brutto momento è qualcosa in meno sui grandi guadagni (sui giornali escono a gran voce). Tranquilli, non hanno a cuore niente che non sia il loro utile inutile.
Ci sono quasi trentamila morti, e di chiacchiere ne sono state fatte troppe. Del resto, che vuoi chiedere a un Paese che si è fermato e non si capisce bene come abbia trascorso questa sospensione della vita? Giusto il tempo di dover obbedire all’arrivo di questo dopo che va affrontato per quello che è. Questo dramma ha un asso nella manica. Lo ha avuto sin dal primo momento. Ci ha gettato la trappola del noi stessi. Quello che abbiamo voluto e creato ci ha aggrediti. Fa paura? Eppure va affrontato, con tutti i rischi del caso. Ma non affrontato coi rischi nel senso di quelli che coniugano a vanvera il verbo aprire. No, assolutamente no. Bisogna affrontarlo come non abbiamo mai fatto. Ma non lo sappiamo, proprio perché non lo abbiamo mai fatto.
Zagrebelsky lo ha scritto di recente, riflettendo sugli sviluppi economici e politici intorno alla pandemia, che viviamo in una civiltà olistica. Nel tutto nessuno può fare a meno di niente e ogni cosa è parte dello stesso corpo. Davanti a noi si presentano diritti e doveri preziosissimi che questo virus ha messo irrimediabilmente in conflitto. È quasi inevitabile che adesso ogni intervento abbia il dolore dell’amputazione. Non abbiamo saputo apprezzare la vita, figuriamoci come avremmo potuto immaginarne una alternativa. E il potere ha dato troppo adito all’abitudinario perché potesse sentirsi pronto per l’inconsueto. Viene in mente quello che Schopenhauer esprime nel Libro quarto (“Il mondo come volontà”) de Il mondo come volontà e rappresentazione.
“Il mondo, nella molteplicità delle sue parti e delle sue formazioni, è il fenomeno, l’oggettità di un’unica volontà di vivere. L’esistenza stessa e i suoi modi, nel tutto e nelle sue parti, non hanno radice che nella volontà. La volontà è libera, è onnipotente. In ogni cosa si manifesta con la determinazione che essa stessa si dà, in sé e fuori del tempo. Il mondo ne è lo specchio; tutte le limitazioni, le sofferenze, i tormenti che vi si racchiudono sono l’espressione di ciò che la volontà vuole: sono così perché la volontà vuole che siano così. Dunque è rigorosa legge di giustizia, che ciascun essere porti sulle proprie spalle, oltre all’esistenza in generale, l’esistenza della sua specie e quella della sua propria individualità, quali sono, in condizioni determinate, in un mondo come il nostro, governato dal caso e dall’errore, soggetto alle leggi del tempo, effimero e afflitto da continue sofferenze; gli ostacoli che incontra e che può incontrare, gli si oppongono a giusta ragione. Perché la volontà è sua e, quale è la volontà, tale è il mondo”.
Del resto, non a caso, “Il mondo come volontà” sottotitola che “Acquistata la coscienza di sé, la volontà di vivere si afferma, poi si nega”. Abbiate pietà, ci sono quasi trentamila morti. Chissà che non abbiano trovato posto in quel luogo che separa il diritto a voler vivere dal dovere di farlo come si deve.
In copertina, L’isola dei morti di Arnold Böcklin
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