After Life, quando la vita è un “dopo”
È difficile dopo aver guardato la prima stagione di After life poter sintetizzare le emozioni e le riflessioni che provoca nello spettatore. Già a partire dallo scabroso tema conduttore (l’elaborazione del lutto) e dal modo in cui viene affrontato si deduce di trovarsi nelle mani una creatura anomala, nata per misteriosi meccanismi produttivi nella fabbrica di sogni di Netflix, per giunta ad opera di un autore/attore e regista, del quale riconosciamo il graffio urticante delle battute al vetriolo, ossia Ricky Gervais.
Lo stand-up comedian inglese, monologhista cinico e dal triplo strato di pelo sullo stomaco, per molti non ha più bisogno di presentazioni, avendo raggiunto anche in Italia un largo pubblico con la propria “pepata” conduzione dell’ultima notte degli Oscar, divenuta un tiro a segno sui tanti divi presenti, presi di mira con la stessa freddezza di un cecchino appostato su di un tetto. Gervais parte quindi in salita, intralciato dalle aspettative del proprio ruolo abituale, carattere che però viene messo in ombra dal dolore umanissimo e sprofondante del giornalista Tony, la figura che interpreta con un piglio minimale, sottrattivo, inedito per le platee di Netflix (basti fare il confronto con la pur eccellente interpretazione alla Pacino di Natasha Lyonne in Russian Doll).
Niente fronzoli, niente apparati emotivi di contrasto costruiti ad arte per impietosire lo spettatore, tutto il passato di Tony e la sua gigantesca perdita si risolvono in ogni puntata con l’espediente diaristico delle clip filmate dalla moglie morta, che, con amorevole puntualità, gli giungono in differita dall’ospedale. Uno strazio a cui Tony non sa sottrarsi e che fotografa sia il carattere solare e protettivo della sua compagna che lo spirito candido che accomuna i coniugi, sempre pronti al gioco e alla risata di complicità.
Basta poco per evocare la gioia in chiunque ne abbia vissuto almeno un assaggio. E’ sufficiente ricordare ogni volta quanto sia limitata, sotto assedio e irrecuperabile, nel tempo in cui lascerà il posto a una lunga fascia grigia in cui l’uniformità dei giorni si consuma sotto un cielo arido senza nuvole né dèi. Così assistiamo ai poco convinti tentativi di suicidio di Tony, prove generali di una soluzione alla quale lui stesso crede ben poco, alle serate solitarie e alcooliche, al momentaneo rifugio nella droga.
A questa cupezza ingigantita dalla solitudine di una Londra marginale e disadorna, come la testata in cui Tony lavora, affiorano voci e volti piccoli-piccoli che s’impongono con la loro veracità e saggezza nel cuore degli spettatori. Per esempio, normalissimi colleghi di lavoro, come il cognato Matt (Tom Basden), sempre preoccupato per la deriva autodistruttiva del fresco vedovo, o Lenny (Tony Way), il fotografo pacioso e mangione, martirizzato dagli scherni crudeli di Tony ma troppo in pace con se stesso per rimanerne offeso, oppure la deliziosa stagista indiana Sandy dallo sguardo dolce di un cerbiatto disneyano (Mandeep Dhillon), o ancora la vedova Anne (Penelope Wilton) che al cimitero parla al marito morto, vero e propria voce della coscienza che nel suo laicismo convinto simboleggia il ponte affettivo tra noi vivi e l’al di là.
Script del genere farebbero temere un azzardato ibrido privo di carattere collocato tra la docufiction e la commedia nera, ma il risultato dovuto alla sapiente messa in scena, alla bravura degli attori e della regia, produce un effetto ipnotico che rapisce con nulla, alla stregua di Stoner, il best-seller di Williams con cui After life condivide la discrezione dei sentimenti e la ricchezza interiore. Un risultato brillante che riesce a commuovere, far pensare e ghignare maliziosamente in una confezione molto british, anche nella crudeltà dell’umorismo che affiora insidioso come frammenti appuntiti di iceberg dalla piatta distesa delle quotidianità rappresentate.
Il viaggio nel dolore, pur toccando punte drammatiche molto forti e provocatorie (vedi la morte del tossico Lawrence), segue nell’arco di questo primo ciclo di puntate un percorso evolutivo che porta Tony a schiudersi alla vita, preludendo agli sviluppi che il personaggio e la sua realtà subiranno nel successivo ciclo di episodi della stagione 2. Una complessità e uno spessore sufficiente da permettere la programmazione di una stagione tre, prevista come conclusione del racconto. Per coerenza all’argomento trattato, After life non prosegue addentrandosi nella ripetitiva e irreale vita eterna dei serial, ma termina – ci auguriamo – in bellezza il suo ciclo vitale, impermanente e irripetibile come la vita vera.