In fondo desideravamo solo fare un bel nulla
“Via verso l’uguaglianza. – Qualche ora di scalata fa di un mascalzone e di un santo due creature abbastanza uguali. La stanchezza è la via più breve verso l’uguaglianza e la fratellanza – e il sonno infine vi aggiunge anche la libertà.”
Friedrich Nietzsche, Il viandante e la sua ombra
Quel timer agli articoli. Quell’avviso prima di iniziare a leggerli. Molti giornali online, ormai, annunciano il testo col tempo “medio” di lettura (altro concetto aberrante). Quel tempo precisato, lassù, come un monito responsoriale, che sembra voler dire “non preoccuparti, facciamo presto, puoi leggerlo, non ti farò perdere tempo”. Il testo come prodotto di consumo che implora per essere riconosciuto come tale attraverso una rassicurazione alla rapidità del suo passaggio davanti agli occhi del lettore. Perché, in fin dei conti, si tratta di qualcosa che passa e basta. Ed è ovvio che anche chi lo scrive spesso in quel tempo è costretto a metterci solo lo spazio che quella frazione gli prescrive, misurando la sintesi anche quando un giornale non sarebbe più costretto ai dimensionamenti dello spazio fisico. Quel timer prima del testo degli articoli è una voce del bilancio del nostro tempo durante la giornata. Come molte altre cose che con la scusa del tempo – una dimensione ben più complessa di come siamo abituati a trattarla – entrano nello statuto dell’occasione. Semplicemente, quanto tempo ci vuole?
Adesso si troverà stravagante partire da questo dettaglio per spingersi altrove. Un luogo lontano che ha molto a che fare col tempo. Un impervio sentiero di flashback, di ritorni, là dove il presente reclama un futuro migliore. Un elastico del tempo che tocca a ogni tempo. Ogni epoca ne ha avuto uno. Allora, mi chiedo cosa ci ha condotti, e come, a quel presente che in passato era futuro. Come abbiamo fatto a volerlo così? Soprattutto, cosa volevano e cosa volevamo? Il progresso – nella sua accezione migliore, diciamo in buona fede – parte, o ha il dovere di farlo, dalle cose che non vanno. Oggi i punti interrogativi cadono in forma di tempesta sopra le tante cose che non vanno. Sopra ognuna di esse piove a dirotto. Ci chiediamo cosa non vada e cosa è andato storto in passato. Ci chiediamo cosa ci sia stato di sbagliato per arrivare a una scuola che chiede alla famiglia di sostituirla e una famiglia che fa lo stesso con la scuola, alimentando un mutuo soccorso insurrogabile, su cui era inevitabile che potesse fiondarsi la mano aziendalista e gelida di una certa politica.
Quella stessa scuola, che oggi corre di bocca in bocca con tanta disinvoltura, che è stata processata e rielaborata nel corso del tempo al pari del concetto di progresso, amaramente stiracchiato a decorso progressivo delle meccaniche umane più cieche e utilitaristiche. Che cosa ha confuso il maestro con l’allievo? Quale legge, quale avvenimento hanno appaltato il difficile equilibrio tra la severità e la tenerezza, il rigore e il candore, a vantaggio di modi di vivere strafottenti e arroganti?
Gli avvenimenti accolti e da molti, a suo tempo, percepiti come rivoluzionari (per esempio il ’68) si sono soltanto rivelati utili al perseguimento di una società che non fosse figlia di un sogno ma, molto più semplicemente, la sua faccia speculare. Il reale rappresentato da una concretezza cinica e individualista che, di fatto, si è poi rivelata come la volontà di voler fare un bel niente. Un ozio avvelenato, per nulla contemplativo, ma indolente e pieno di sé. E tremendamente involgarito. Il sé che ha come unico riferimento il sé. Una sopprimente e nevrotica agamia del pensiero. Poco a poco, ne è venuta fuori una società in cui quasi nessuno è disposto ad assumersi una responsabilità (farlo significa un duro lavoro), in cui nessuno sa o vuole prendere una decisione. È solo apparente quella cultura risolutiva che condiziona, ma non risolve. Annuncia, ma non dà seguito alle sue parole. Condanna, ma non interviene. E così via, per un’evasione di se stessa che è la peggiore delle oppressioni. Una dittatura del niente governata da una giunta dei vuoti.
Abbiamo desiderato un’irrequietezza che sin dalla giovane età si manifesta soltanto attraverso esibizioni estetiche e mondane. Uno sfoggio talvolta presuntuoso e cinico, irridente e commiserante, surroga la frustrazione di fondo per non saper fornire un’alternativa alle cose degli altri che non sia solo una smarrita contestazione per principio e basta, incapace di mostrarsi concreta, ma sentita, frutto di un’urgenza, di un’idea. Concreta, sì, in un senso diverso da questa concretezza. Una concretezza coagulata, solidificata in rigidità emotive e piscologiche che fanno sì che il teorico si divinizzi a dittatura di quel vuoto.
Chi ricorda i dibattiti televisivi di tanti anni fa? Oggi li vado a rivedere e a riascoltare grazie alla rete. Tutti dovrebbero provare a farlo. Non per didattica. Solo per pedagogia della serenità. Quei dibattiti televisivi ai quali partecipavano grandi scrittori, attori, accademici, politici. In dialogo fra loro e col pubblico senza farciture, senza il fronzolo spettacolarizzante. E che domande arrivavano dai giovani. Parole ricche di significati, precise. Di quando la parola seria veniva pronunciata con quel timbro netto ed essenziale di chi sapeva maneggiarne il significato senza che uno strepitio potesse turbarne la religiosità.
Gli ospiti parlavano, gli studenti parlavano, i giornalisti parlavano. Non si avvertiva la confezione artificiosa e impacciata che oggi denota una cosa intorno alla quale preferiamo girarci senza pronunciarla. L’ignoranza, l’inettitudine all’umiltà della conoscenza. Ogni cosa è caduta o sta cadendo in questo. Nella cattiva volontà di non perseguire più con abnegazione e sacrificio quello che è importante. Si corre a vuoto, arraffando e vantando titoli e attestazioni formali. Tuttavia, cosa conosciamo realmente? Quale maggiore sensibilità e perizia abbiamo saputo raggiungere nel tempo trascorso a desiderare che le cose migliorassero? Solo un’alterazione della volontà. Diretta a se stessi, per se stessi, secondo se stessi. Così, chissà, si finisce per apprendere un bel nulla, per volere un bel nulla. Forse volevamo questo. Un ozio illusorio, da vivere da inebetiti e sardonici. Come i nostri pensieri.
Presto, adesso c’è da leggere un altro articolo. Magari dirà quanto tempo ci vuole per farlo. E di fare presto, perché abbiamo appuntamento col niente.
In copertina, Giorgio De Chirico, Gli archeologi