Ode ai colori del giorno
di Eliana Petrizzi
La mattina mi svegliano all’alba i miei due colombi, che vengono ad amarsi ai piedi del letto. Dopo colazione, a volte esco per un giro tra i campi vicino casa, per vedere il giorno che nasce, per fotografare l’erba nuova e riempirmi di una gioia sovrumana.
Torno a casa e mi metto a dipingere in silenzio. Un pranzo veloce, e di nuovo a piedi tra campi e boschi. Gran parte della mia inconcludenza quotidiana è dovuta al fatto di trovare del tutto incomprensibile restare al chiuso in casa, se fuori splende il sole e la vita è in piena. È un reato, una mancanza per la quale non esiste rimedio: per questo vado. Siedo a riposare sotto un albero, altre volte resto sveglia a scrivere o a pensare. Penso che la natura abbia inventato la paura della perdita e della morte per restare ben attaccati alla vita, ma ha calcato la mano. Così succede che, per la paura di perdere e di morire, non si riesce mai a restare veramente attaccati alla vita. Cerco qualcosa che unisca l’illimitatezza dello scorrere alla stabilità dello stare. L’azzurrino distante delle montagne è la sensazione di certezza, da bambina, che mio padre esisteva.
Ora, però, una cosa voglio dirtela, padre. Devi morire una seconda volta, laddove insidi spazi che non ti spettano. Stanotte ho sognato un compagno che di fatto non esiste nella realtà. Eravamo a letto, e io cercavo di amarlo ma lui era distante, impassibile, la sua carne non rispondeva. Eravamo stesi nel chiarore opaco di un’alba che appena iniziava. A un certo punto mi sono voltata e tu eri steso lì, morto, accanto a noi. Non è gentile da parte tua. Devi scomparire per sempre da certe stanze. Sono un’orfana di guerra accovacciata accanto alle macerie della casa in cui non abitammo. Dove ti avevo sepolto, io vengo sempre a salutarti e a piangerti e a parlarti. Non ti basta? Vieni a infettare i miei poveri amori, dove non entra che l’afrore di una tomba mai chiusa. Poi però esco all’aria aperta, e i colori del giorno mi asciugano. La vita è un campo confuso di possibilità grandiose. È sguardo che capta e che crea, è domanda e risposta, è imprevisto e sovvertimento, nel tentativo di condurre ogni cosa lontano dallo stato di necrosi in cui versa l’esistenza quando la si vive troppo da vicino.
Accadono cose meravigliose: finite le piogge dell’inverno, è rimasta nell’aria la malinconia ottimista di marzo, con le sue luci improvvise e l’odore umido della terra, che prepara una casa nuova ai semi. Guardo il mare brillare in un applauso entusiasta che non stanca. Vedo coppie innamorate e sono felice. Vedo persone bellissime e sono felice. Vedo dettagli apparentemente insignificanti, e sono felice. In ogni cosa che vivo, da ogni luogo che attraverso traggo insegnamenti sorprendenti, e sempre qualcosa di utile che mi aiuta a essere grata alla vita. Ho imparato da tempo che le cose accadono quasi sempre nell’intervallo tra ogni aspettativa, nella resa di ogni proposito, nella rinuncia a possessi troppo stretti. E tanto basta per vivere al sole. È luglio. I panni asciugano presto. Posso lavare i capelli con l’acqua fredda. Posso camminare scalza. Un abito entra in un pugno. Le cicale tengono acceso il sole fino a sera. Sono sciatta e ne sono felice. Bel tempo stabile. Chiarore lunare nelle ombre. Luce liquorosa al tramonto, oro caldo che spiana gli anni sui volti. Il mare forte, il lungomare deserto, vento. Su una panchina, un uomo e una donna fissano l’orizzonte.
Come certe case, che stando in un paese da sempre hanno finito per prendere lo stesso colore del paesaggio, così in silenzio siedono l’una accanto all’altra, uguali. E di nuovo il mattino: che pace, che vera gioia stare fermi in silenzio nel prato. Mi stendo sul terreno a osservare l’erba nuova, che da questa posizione somiglia a una galassia di alberi millenari. Qui non arrivano i suoni degli uomini. Si sentono solo i versi merlettati degli uccelli, anche di quelli del bosco, che ritrovata la fiducia sono scesi a valle. “Non è amore – direbbe qualcuno – è vita che ciecamente deve continuare”. Ma io vedo solo un coro universale di bellezza in cui ogni cosa, persino la morte, giace senza nulla da obiettare accanto al nuovo, senza pena.