‘Tenet’ di Christopher Nolan. Salvare il mondo, salvare il cinema
In un futuro non troppo distante, una guerra di proporzioni apocalittiche getterà l’umanità sull’orlo dell’estinzione. Armato di una sola parola – Tenet – il Protagonista è coinvolto in una missione nel crepuscolare mondo dello spionaggio internazionale, che lo vedrà confrontarsi con il misterioso oligarca russo Andrei Sator per cercare di prevenire il conflitto per la sopravvivenza di tutto il mondo [sinossi].
Se il valore di un’opera si misurasse in base all’attesa, Tenet, undicesimo lungometraggio di Christopher Nolan, sarebbe senz’altro il film dell’anno. Soprattutto se si considera la singolarità, tutta negativa, di questo disgraziato 2020. Attesissima, più volte annunciata, l’uscita del blockbuster diretto dal regista britannico ha rischiato di slittare al 2021, in un’epoca (si spera) ormai post-Covid. Poi, dopo una sorta di continuo palleggio avanti e indietro nel tempo, quasi a ripetere il destino dei suoi personaggi, Tenet vede finalmente la luce, o meglio il buio della sala cinematografiche, con un lancio potente da parte della Warner Bros. (700 copie in tutta Italia), per approdare poi tra una settimana anche negli Stati Uniti, ancora pesantemente falcidiati dal Virus.
Se la “mission impossible” del Protagonista senza nome di Tenet è quella di salvare il mondo, al suo regista sembra invece essere toccato in sorte il destino di risollevare il cinema, inteso questa volta nei suoi termini di mera sopravvivenza commerciale. La speranza, infatti, è che un film a suo modo importante e dall’immane sforzo produttivo (205 milioni di dollari il budget complessivo) possa spingere un pubblico comprensibilmente timoroso a vincere le paure e a lasciare il soggiorno e il divano di casa per correre in sala. Da questo punto di vista, a livello di puro spettacolo visivo e, soprattutto, sonoro Tenet è senz’altro il film perfetto, capace di sollecitare e solleticare il nervo ottico e l’apparato uditivo dello spettatore, di mantenerlo sulla corda, con le sue costanti accelerazioni di ritmo e un suono che punta sugli effetti più tonitruanti, ai limiti dello sfondamento di timpani, un’esperienza che non si può certo vivere tra le mura del proprio appartamento, anche per chi fosse munito di un impianto audiovideo con le caratteristiche tecniche più aggiornate.
Il termine che dà il titolo alla pellicola viene dal quadrato del Sator, un’iscrizione latina in forma di quadrato magico composta da cinque parole: SATOR, AREPO, TENET, OPERA, ROTAS. Questi vocaboli costituiscono coppie di palindromi (Sator-Rotas, Arepo-Opera) cui va aggiunta “Tenet” che, riportata al centro, forma una croce a sua volta palindromica. Le cinque parole compaiono tutte nel film: il russo Sator (Andrei) è l’antagonista (un Kenneth Branagh shaspearianamente con il cervello “fuor di squadra”), Rotas un’azienda svizzera, Arepo (Thomas) è un personaggio che non si vede mai che ha una relazione con la moglie di Sator, l’Opera di Kiev fa da sfondo alla grande sequenza iniziale, Tenet è l’unico indizio, la parola magica che dovrebbe aprire al Protagonista le porte di un misterioso sistema che potrebbe non solo distruggere il mondo ma anche annullarlo, cioè fare in modo che non sia mai esistito (nel film viene definito, con sintesi non proprio accattivante, il “Paradosso del Nonno). È quanto gli viene annunciato, in verità in una maniera così asettica e priva di energia da far quasi sorridere, da una scienziata che lo informa dell’esistenza di proiettili invertiti, di una banda che ha scoperto un sistema per viaggiare nel tempo, capace di rovesciare le leggi dell’entropia.
Sceneggiato dallo stesso regista, che ha senz’altro maggiori doti come metteur en scène che come narratore, Tenet è un complesso, spesso inafferrabile rompicapo, che ragiona sulle leggi della fisica e della meccanica quantistica e che probabilmente può offrire molte delizie allo spettatore che lo guardi senza porsi troppi problemi di decifrazione. Come in alcune sue opere precedenti (si pensi a Memento o a Inception), Nolan si diverte a rovesciare il tempo o a mescolare i livelli del racconto al punto, ad esempio, che i personaggi si trovano a sfondare e attraversare le varie dimensioni fino a incontrare se stessi nel passato (o nel futuro, chissà) in un gioco talvolta inintelligibile e probabilmente anche un po’ confuso. Regista di smisurate ambizioni, cui non sempre fanno seguito risultati conseguenti (come nel pessimo Interstellar e nel mediocre Dunkirk), in questo film Nolan sembra dare il suo meglio nelle sequenze d’azione, che traggono particolare linfa e fascino dalla “tenaglia temporale” (come la definiscono gli stessi personaggi) dentro la quale si svolgono.
Purtroppo, Tenet funziona decisamente meno sul versante della descrizione e della caratterizzazione dei personaggi. Poco o nulla si sa veramente di loro (del Protagonista, come del suo sodale Neil) e tra il monocorde John David Washington, figlio di Denzel, e il più vivace Robert Pattinson, ormai artisticamente lanciatissimo, la chimica non sembra essere delle migliori. Non va molto meglio con la slanciata Elizabeth Debicki, che si limita a ripetere il personaggio interpretato nella miniserie britannica The Night Manager mentre Branagh è un villain assai poco interessante e un po’ sonnolento. È come se il regista, con la sua consueta spinta demiurgica, si fosse limitato a tratteggiare dei tipi umani (l’Eroe, l’Aiutante, l’Antagonista, la Donna) senza insufflare in loro alcun vero alito di vita, privandoli di caratterizzazione psicologica, di una personalità riconoscibile e definita, di una storia personale: se, apparentemente, nello schema della fabula, i personaggi traggono importanza dal possesso di un passato e di un futuro, in realtà, quasi paradossalmente, al termine del film lo spettatore è costretto ad accorgersi di non sapere nulla di loro, qualunque sia la dimensione in cui li ha visti agire.
Inoltre, in certi momenti sembra che Nolan resti vittima del suo stesso meccanismo narrativo. Infatti, tra una scena d’azione e l’altra (Tenet è, nel complesso, un action-movie abbastanza tradizionale e, per certi versi, persino già visto), i personaggi sono costretti a continui “spiegoni”, probabilmente per aiutare lo spettatore a riemergere dall’apnea narrativa per prendere una boccata d’aria, a districarsi nel labirinto e a digerire alcune battute sentenziose come “Hai un futuro nel passato” o “Viviamo in un mondo crepuscolare”, di whitmaniana memoria. Non mancano sequenze mirabili e mirabolanti (una su tutte, l’inseguimento in auto, ripetuto tenendo conto dei suoi vari salti temporali), anche se l’impressione è quella di un risultato complessivo al di sotto delle ambizioni, un marchingegno capace di titillare i sensi (“al cinema si fa anche per farsi titillare” diceva un Robert De Niro mellifluo e sornione nel simpatico Amanti, primedonne di Barry Primus) ma troppo preoccupato di sé per arrivare a essere fantascienza genuinamente filosofica, troppo cerebrale per riuscire anche a scuotere, coinvolgere, inquietare e, soprattutto, a dire veramente la sua sul contemporaneo.
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