Venezia 77, giorno 3. Claudio Noce nel nome del padre ma il film non funziona
Il Concorso, lo si scriveva proprio ieri parlando di Quo vadis, Aida?, era partito molto bene, per poi andare subito in picchiata con i film successivi in un’edizione, è doveroso ricordarlo, partita già azzoppata a causa dell’impossibilità da parte dei selezionatori di portare sul Lido molte opere che, in un’annata normale, avrebbero nobilitato sicuramente il parterre. Difficile, dunque, gettare la croce addosso a qualcuno se la stampa e il pubblico si trovano davanti e sono costretti a sorbirsi opere come il francese Amants di Nicole Garcia o l’indiano The Disciple di Chaitanya Tamhane. Il primo è la storia di un triangolo amoroso, un melodramma raffreddato che poi sconfina (male) nel noir, un racconto privo di smalto e pieno di svolte narrative a dir poco implausibili, cui poco o nulla giova la presenza di un attore di spessore come Benoît Magimel e quella di Stacy Martin, per nulla a suo agio quando un copione abbastanza maldestro la obbliga a vestire i panni della dark lady.
The Disciple è invece la storia di un giovane cantante indiano, che cerca di perpetuare la tradizione del raga (o raag), un genere di musica classica, diffusa soprattutto nell’India settentrionale, il cui retaggio appare sempre più in crisi a causa dell’invasione di nuovi ritmi moderni che rischiano di soppiantarlo e di farla scomparire. Trattando in maniera molto specifica un argomento con il quale probabilmente buona parte degli spettatori occidentali ha scarsa familiarità (il film inanella numerose sequenze in cui i personaggi intonano melodie, accompagnati da alcuni strumenti a corde), il regista non riesce a coinvolgere e appassionare con un’opera che, omaggiando una peculiare manifestazione artistica del suo Paese, sembra concepita e realizzata con il pensiero rivolto soprattutto ai suoi connazionali. Al di là di questo, The Disciple paga comunque anche una certa ripetitività dell’azione e una scarsa attenzione allo sviluppo dei personaggi, traendo poco beneficio dalla durata considerevole che sfiora i 130 minuti.
Stamattina è stato presentato alla stampa anche il primo dei quattro titoli italiani in lizza per il Leone d’oro. Si tratta di PADRENOSTRO (scritto in maiuscolo nel materiale distribuito alla stampa), terzo lungometraggio di finzione di Claudio Noce, la cui uscita in sala è prevista il 24 settembre. Il regista romano dirige quello che è sino a questo momento il suo film più intimo e personale: narra, infatti, la storia del padre Alfonso, che negli anni ’70 fu vicequestore e responsabile dei servizi di sicurezza per il Lazio, prestando servizio al nucleo regionale per l’antiterrorismo. Nel 1976 Noce senior fu ferito nel corso di un attentato organizzato dai Nap (Nuclei armati proletari), un agguato in cui persero la vita l’agente di polizia Prisco Palumbo e uno degli assalitori, Martino Zichitella, pare colpito per caso da uno dei suoi complici. Noce all’epoca dei fatti aveva poco meno di due anni, ma la sceneggiatura, scritta dal regista insieme a Enrico Audenino, aumenta in maniera decisiva l’età del figlio di Alfonso, che diventa un ragazzino con “un’età normale” (come viene detto nel film, una via di mezzo tra un bambino e un adulto), uno scolaro delle elementari vivace e intelligente che, nella finzione, assiste dal balcone al tragico evento che avrebbe segnato per sempre la sua vita, vedendo morire sotto i suoi occhi uno dei terroristi.
Almeno nella prima parte, meno scomposta rispetto a una seconda in cui il regista sembra perdere completamente il controllo della narrazione, PADRENOSTRO racconta tutta la vicenda ponendosi ad altezza di bambino. Il contesto storico viene messo in sordina e deliberatamente ignorato, così come abbastanza sbrigativa è la descrizione d’ambiente, per lasciare spazio ai sentimenti e ai giochi infantili del piccolo Valerio, che ovviamente ignora le aberranti motivazioni dell’attentato a suo padre e l’identità politica degli assalitori. Molto legato ad Alfonso, che il lavoro tiene spesso lontano da casa, assai meno alla madre, descritta come una donna affettuosa ma un po’ scialba (e che, a dire il vero, lo script non aiuta a conoscere e alla quale l’attrice Barbara Ronchi non infonde particolare verve), Valerio supplisce alla sua assenza prima attraverso il rapporto con un amico immaginario e poi con la conoscenza di un misterioso ragazzino. Questi gli si presenta un giorno come venuto dal nulla, indossando vestiti un po’ logori, è maggiore di lui di qualche anno, e dice di chiamarsi Christian, nome che reca già in sé una forte valenza simbolica, la quale viene ulteriormente sottolineata, un po’ troppo platealmente, dalla croce che gli pende al collo.
Per quanto apprezzabile nelle intenzioni, PADRENOSTRO è un film irrisolto in cui il regista sembra indugiare troppo tra realismo e simbolismo, senza trovare il giusto amalgama, indeciso sull’abito da far indossare alla sua storia. Noce trasporta lo spettatore attraverso sentieri ingannevoli, dandogli continuamente delle false piste, dando però l’impressione che il primo a perdercisi sia proprio lui. Emotivamente coinvolto nella storia che viene narrando, il regista ridonda e ripete là dove sarebbe stato più efficace asciugare (mostrando, ad esempio, in maniera fin troppo insistita i giochi dei due ragazzini, interpretati dai simpatici Mattia Garaci e Francesco Gheghi) mentre la sceneggiatura corre via troppo velocemente e appare decisamente reticente in alcuni punti in cui una maggiore precisione avrebbe forse giovato (su tutti, l’evocazione del fantasma di Adela la cui funzione nel film finisce per smarrirsi). PADRENOSTRO è allora un racconto che si vorrebbe accorato ma che ricorre a espedienti narrativi talvolta dozzinali e compie alcune scelte registiche discutibili, come l’uso insistito del ralenti e un utilizzo troppo invasivo della musica. Inoltre, soprattutto nella seconda parte, il film appare maldestro e incespicante fino ad arrivare a un finale che tenta l’impennata lirica, ambisce all’emozione ma non fa che aumentare lo sconcerto e il disorientamento dello spettatore.
L’obiettivo di Noce, e il fulcro centrale del film, è costituito dal tentativo di immaginare una pacificazione, che appare assai difficile, tra i due opposti schieramenti, quello della Legge e quello dell’eversione, della lotta al cuore dello Stato, cercando di cementare un’alleanza, addirittura un patto di sangue (il che appare francamente esagerato) che serva a una delle parti per mettere in atto un tentativo di riscatto, all’altra per prendere coscienza, a entrambe per superare i rispettivi traumi. Tuttavia, questo risultato sarebbe ottenibile soltanto se ci si preoccupasse di restituire, almeno in parte, il contesto storico, mentre finisce per risultare posticcio e anche poco credibile se tutto viene affidato soltanto a una tardiva rivelazione. Per tutti questi motivi, PADRENOSTRO è un’opera nobile nelle intenzioni ma fiacca nei risultati, un film giusto nella sua volontà di voler fare i conti con la propria storia ma sbagliato per la scelta di giocare a carte apparentemente scoperte ma in realtà truccate. Tra gli interpreti un appannato Pierfrancesco Favino, che figura anche tra i produttori, e che qui presta il volto, e niente più di quello, ad Alfonso.
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