Hebron, la città fantasma: le foto di Vincenzo Bello che raccontano il dramma della città dei patriarchi
Hebron, la città fantasma è il titolo del set fotografico, a cura di Vincenzo Bello, esposto presso il Festival della Fotografia Etica di Lodi, circuito OFF fino al prossimo 25 ottobre, già in mostra al Festival Falastin di Roma. Il saggio di scatti provenienti da un viaggio dell’autore in Cisgiordania fanno parte sia delle esposizioni in corso, sia di altre che ancora devono essere realizzate, come una mostra che, stando ai programmi di Bello, dovrebbe essere realizzata a Milano entro fine anno.
“Hebron” in arabo vuol dire “amico” e la sua origine etimologica è direttamente riconducibile a quella del patriarca biblico Abramo. La città vecchia di Hebron/Al-Khalil, caratteristica per le sue stradine strette e tortuose, è inserita nella lista dei patrimoni dell’umanità dell’UNESCO. La città complessivamente intesa, invece, contempla una netta prevalenza di abitanti palestinesi e una piccola minoranza di ebrei, concentrati, soprattutto, nella “Città dei quattro”, un piccolo insediamento di poche migliaia di abitanti situato nella periferia di Hebron nella regione dei Monti della Giudea.
La città non ha mai conosciuto tregua e serenità. Al centro di numerosi conflitti e punto di delicato e complesso equilibrio politico in Medio Oriente, negli ultimi anni è stata oggetto di denunce da parte di alcune associazioni impegnate sul fronte della salvaguardia dei diritti umani. In particolare, Breaking the silence, entità composta da ex militari israeliani, mette sotto accusa le milizie di Israele a causa delle gravi violazioni a danno della popolazione palestinese.
Dalle fotografie di Bello emergono desolazione e abbandono, tratti che denotano visibilmente lo stato del luogo della Hebron impressa negli scatti che in toni di bianco e di nero rimandano alla segnica delle strade e degli edifici di quartieri nei quali una traccia caratterizzata da una grande grafia metropolitana ha impresso la sua firma. Una città murata, reticolata, che pare aver subito una censura che adesso ha abbandonato a se stessi gli effetti del suo passaggio dentro un immaginario in cui talvolta pure gli edifici subiscono modifiche in nome di una strategia della restrizione.
Il filo spinato e il murales convivono in un tragico ossimoro urbano. L’intimidazione e la contestazione in una sola immagine. Un’urbe fossile si presenta nel suo congelamento civile. Lo spazio comanda un’occupazione in forma di vuoto. Un protocollo delle assenze ha diramato l’ordine alla sospensione di ogni movimento umano. E dagli scatti di Vincenzo Bello questo è l’aspetto che pare risaltare con più immediatezza. L’immagine parla il silenzio e un’estetica della cupezza domina un paesaggio in pena di sé. Da quel silenzio proviene un allarme che sembra inascoltato.
Il testo di presentazione delle due esposizioni fornito dall’autore chiarisce ulteriormente le ragioni e i significati di fondo dei suoi scatti:
Hebron, la città dei Patriarchi, è una città fantasma. Ed è una città divisa da quando, nel 1994, un colono di estrema destra, Baruch Goldstein, ha ucciso 29 palestinesi che pregavano nella Moschea dei Patriarchi. Da allora la città è stata divisa in due aree: H1 controllata dall’Autorità Nazionale Palestinese e H2 dove vivono i coloni sotto la protezione dei soldati israeliani. Shuhada Street, la principale strada di Hebron, una volta ricca di botteghe, negozi, commerci dall’aria carica di odori e colori, nei quali si immergevano le persone, oggi è completamente chiusa e impedita al transito dei palestinesi. L’antica e vivace città dei patriarchi oggi appare spezzata, desolata, spettrale; una prigione chiusa tra checkpoints, divieti di accesso e perquisizioni. Le finestre delle abitazioni palestinesi e ciò che resta del mercato e delle vie del centro storico sono coperte da reti metalliche a protezione dagli attacchi continui dei coloni e dell’esercito israeliano. Prigioni nella prigione. La questione Palestinese ha radici lontane nel tempo, ma i suoi effetti sono concreti e attuali ed Hebron è il simbolo di un conflitto e di un popolo dimenticati.
Il lavoro svolto da Vincenzo Bello – lavoro che sembra dover andare incontro a ulteriori sviluppi e progetti nel corso del tempo – si allinea a una tradizione recente della fotografia di natura più militante, che spesso mette la macchina fotografica al servizio del reportage di denuncia e dell’arte.
Il collettivo Activestills, per esempio, attivo dal 2006, durante un’attività di produzione durata oltre un decennio, ha raccolto migliaia di scatti quasi tutti incentrati sulla vita quotidiana della “Sponda occidentale”, con particolare attenzione alla Striscia di Gaza e alla Cisgiordania. O come, per una direzione anche artistica (meglio sarebbe dire disposizione artistica), il volume di immagini restituito da Rula Halawani, fotografa palestinese che ha esposto delle sequenze visive presso i padiglioni della Biennale di Venezia del 2019.
L’opera di Vincenzo Bello entra a far parte di quel contributo prezioso e indispensabile che nell’era del lancio dell’immagine suggerisce con silenzioso rigore l’essenzialità di un’immagine che, invece di enfatizzare significati deboli ed effimeri, parla di condizioni che nella loro distante e profonda inquietudine vivono quella realtà che solo da l suo interno può essere compresa fino in fondo.