Quella Napoli contro l’altra faccia del contagio
di Davide Speranza
Napoli – «Mandiamoci De Luca a vivere in cantina, la casa è un diritto, l’affitto una rapina, mandiamoci De Luca a vivere in cantina». «Come arrivo alla fine della pandemia se ho il mio aggressore dentro casa?». «Violenza non è una rivolta in piazza ma starsene a casa e ascì pazza». «Sono un lavoratore della cultura, esisto anche io». «Reddito e salute per tutte/i, la crisi la paghino i ricchi». «Camorristi a chi?». «Sono un lavoratore, aspetto la cassa integrazione». «I miliardari in Italia sono diventati più ricchi del 31%, tassiamoli». «Non vogliamo morire né di fame né di Covid, assistenza sanitaria e soldi ora». «Tu mi chiudi tu mi paghi».
Sono solo alcuni degli striscioni portati in Piazza Plebiscito, ieri sera, durante una manifestazione pacifica che ha visto protagonisti più settori del mondo sociale e lavorativo, contro le nuove disposizioni anti-Covid. Disposizioni che vedono, in particolare, la chiusura alle ore 18 di locali come ristoranti e bar, ma anche quella di palestre, piscine, teatri, cinema. Sindacati, operatori dello spettacolo, studenti, collettivi, barman, camerieri, ristoratori. Gruppi di manifestanti con campanacci da sventolare in aria in segno di protesta. Una manifestazione corretta, dove rabbia e passione sono state contenute. Intorno Piazza Plebiscito si è schierato un esercito tra carabinieri, poliziotti e guardia di finanza, con tanto di caschi e scudi. Ma questa volta non c’erano infiltrati, non c’è stato il delirio collettivo di una notte – quella di venerdì scorso – dove avrebbe potuto anche scapparci il morto. Questa volta il corteo ha fatto la sua parte, gli agenti si sono limitati a osservare e barricare. La massa è scesa ancora una volta verso Santa Lucia fermandosi davanti al palazzo della Regione. I cori hanno proseguito. Poi tutti a casa. Chissà come intitoleranno i giornali. Forse non c’è la notizia da urlo, nessuno è stato malmenato. C’è solo la fotografia di centinaia di donne e uomini sul lastrico, a chiedere provvedimenti al Governo, strategie e pianificazioni per un Paese in ginocchio.
La cosa che salta all’occhio è lo spostamento di ragionamento. La tragedia portata dal Covid – punta di un iceberg di decennali fallimenti politico-gestionali – diventa uno scontro tra ricchi e poveri, tra il potere dei pochi e il popolo. «Dall’epoca antica – spiegano due giovani lavoratori nella ristorazione – le pizzerie hanno sempre lavorato di sera e mai di mattina. Si sapeva che ammettendo una restrizione, con chiusura alle sei, succedeva tutto questo. Era ovvio». A fargli eco un manifestante, bardato e con il volto coperto da mascherine e occhiali scuri. «C’è un comitato tecnico-scientifico, hanno dato dei protocolli, li abbiamo seguiti alla lettera, non c’è stato un controllo – sbotta – Lavoro tutti i giorni, non c’è stato un controllo né dalla parte dello spettacolo né da parte dei lavoratori di bar. Niente, le misure e il distanziamento sono state “tana libera tutti” da maggio in poi. Non possiamo questa volta rimetterci noi. Stiamo aspettando la cassa integrazione e quei 600 miseri euro. Abbiamo pagato seimila euro di tasse e contributi – e rincara – 600 miseri euro che non servono a pagare nulla. Non c’è niente, è tutto fasullo. Non ce la facciamo più, questa volta basta».
Molti i ragazzi a protestare in piazza. «Chiediamo che si chiuda realmente tutto – dice un giovane attivista – Non si chiudano solo i posti della movida, solo le strade e le piazze, ma anche le fabbriche, per un lockdown vero e per fermare realmente questo contagio. L’unica soluzione è trovare i soldi per dare un salario e un reddito a chi deve rimanere in casa. E questi soldi non si devono trovare con un Recovery Fund, bond, o aumentando il debito pubblico, ma tassando il 10% della popolazione. Sono 100 le famiglie che detengono più del 40% dei beni in Italia e quindi devono essere tassate. Deve esserci una reale patrimoniale e non la barzelletta che c’è adesso. Siamo qui in molti tra cui il Collettivo Iskra, Insieme disoccupati 7 novembre, sindacalisti del SI Cobas, e su tutto il piano nazionale come fronte unico lottiamo per una patrimoniale, non perché ci basti ma perché unico modo per rimanere a casa, per garantire lo stop ai contagi e dare una vita più che dignitosa ai cittadini. Gli errori non sono da trovare in questo governo o qualsiasi altro che segua e passato. I problemi sono sistemici, sono di un mondo».
Alla fine, Palazzo Santa Lucia è rimasto solo, un gigante abbandonato e silenzioso, in una strada abitata da agenti della polizia rilassati e camionette parcheggiate. In strada alcuni ragazzi. Tre di loro mi fermano. Vorrebbero parlare, ma non comparire. Il più coraggioso si sbottona e inizia un monologo tragico e profondo, specchio di un declino comunitario. “Perché tutti devono scrivere Napoli-camorra? Le violenze stanno capitando ovunque. Sì, c’erano anche uomini di merda venerdì scorso, ma c’erano pure persone perbene portate finite dalla politica. Ci dobbiamo rimboccare le maniche? Lo facciamo. Io fatico come un ciuccio. Ma non è come scrivono, non è sempre così. Non è sempre camorra. Perché dobbiamo vivere sempre con quest’immagine incollata addosso? Ho 23 anni – racconta – E questo paese è morto non ora, ma già da anni, è morto già da quando sono nato. Sono un operaio, nessuno mi ha mai regalato niente. Al Governo abbiamo avuto gente come Berlusconi che ha portato in Parlamento prostitute e ladri. E gli altri capi politici non è che abbiano fatto qualcosa di buono. Ora ci sono questi che non sanno cosa fare. Ma io che futuro posso avere? Dove abito ho visto cose che non potete immaginare. Strutture che se ne cadono, povertà, delinquenza, disperazione. I padroni del lavoro ci sfruttano e ci pagano male. È facile in questo modo che la malavita si avvicini ai giovani. Ma sarebbe bello avere una speranza”. Forse l’atto di protesta di ieri sera si porta dietro questa speranza, la voglia gioiosa e incontrastabile di costruire una generazione futura sgombra dai fantasmi di un mondo squarciato.