A Napoli attori e sindacati si chiedono quanto valga la cultura in Italia
di Davide Speranza
Questo approfondimento, oltre a raccontare le testimonianze intorno alla manifestazione per la cultura che si è svolta a Napoli nella giornata di venerdì 30 ottobre, introduce una breve rassegna-osservatorio sui moti di contestazione che in questi giorni si sono verificati a Napoli a causa delle chiusure decretate per l’emergenza Covid. Seguiranno, attraverso le prossime uscite, due interviste esclusive a cura di Davide Speranza.
Napoli – «Ho ricevuto molti appelli del mondo della cultura, ho letto proteste, ho letto articoli, ho ricevuto attacchi. Tutto comprensibile. Io ho l’impressione che non si sia percepita la gravità della crisi, non si sia percepito quali sono i rischi del contagio in questo momento. La curva da aprile ad oggi è impressionante. La chiusura delle attività non è stata legata a una scelta gerarchica». Partiamo da qui. Partiamo dalle esternazioni del ministro per i Beni Culturali Dario Franceschini che ha spiegato le ragioni per cui il nuovo Dpcm obbliga le strutture culturali a richiudere le porte. Parole che hanno indignato sindacati e operatori del settore, pronti a opporsi e a levar scudi. E in effetti, ieri mattina, in Piazza del Gesù Nuovo, si sono raggruppati attori, registi, musicisti, tecnici, autori, ballerini. A organizzare le sigle Slc Cgil, Fistel Cisl e Uilcom Uil. Con loro, decine di associazioni e movimenti autonomi.
La voce è unica: “Non chiudete cinema e teatri”. Volti noti, tra cui Giacomo Rizzo, Lino Musella, Antonello Cossia. Striscioni, volantini, megafoni spianati, una educata manifestazione terminata con riferimenti a Mejerchol’d e Majakovskij. E una domanda provocatoria esplode tra i tanti discorsi (lasciando da parte la certezza di un’emergenza che pare senza controllo): “Ma la cultura in Italia è un gioco o un mestiere?”.
«La piazza di questa mattina è una chiara esemplificazione e dimostrazione di come il Covid e l’emergenza sanitaria abbiano fatto esplodere tutte le fragilità presenti nel mondo dello spettacolo. Fragilità che abbiamo sempre denunciato – assicura Alessandra Tommasini segretario generale Slc Cgil Napoli Campania – Un mondo fortemente destrutturato, perché possiede formule contrattuali che non consentono un percorso lineare nel lavoro. Non hanno un sistema di ammortizzatori sociali, non hanno un sistema di Welfare, non hanno tutelato istituti fondamentali di civiltà come maternità e malattia. Chiediamo al Governo nazionale di riconoscere queste persone come categoria lavorativa. Stiamo spingendo a livello locale e nazionale affinché si costituisca un tavolo permanente attorno al quale le categorie sindacali si siedano per rappresentare le esigenze dei lavoratori. I primi a chiudere e gli ultimi ad aprire sono stati i teatri e i cinema. I bonus erogati durante il lockdown sono stati inadeguati, non hanno raggiunto la platea lavorativa. Un vulnus che va sanato adesso. L’Italia è uno dei Paesi europei che investe meno nella cultura. Dietro il termine cultura c’è tutto quello che noi amiamo apprendere, vedere, ascoltare, assistere e c’è un mondo fatto di uomini e donne in carne e ossa». Ma resta una obiezione: la rete del mondo della cultura sembra smembrata. «Non ha funzionato bene fino ad ora – conferma la Tommasini – Speriamo sia il momento perché ci sia una rete strutturata. Il Governo in questo ha un ruolo fondamentale e ha il compito di legiferare e ascoltare le parti sociali».
Sulla stessa linea Salvatore Capone della segreteria Fistel Cisl Campania: «La cultura è il nostro petrolio – ha detto – Chiudere cinema e teatri significa condannare questi lavoratori alla povertà. Gli strumenti sono di doppia natura. Quelli regionali con la legge 6 dello spettacolo del 2007, una legge datata che fa riferimento a un mondo che non esiste più e andrebbero costruiti meccanismi di controllo per verificare a chi vanno effettivamente queste risorse. Il Governo, poi, dovrebbe immaginare situazioni per le quali le strutture diventino potenziale ricchezza. Spettacoli all’aperto, spettacoli protetti. Ci sono teatri e cinema in grado di mettere in campo iniziative da sostenere».
In piazza c’erano anche gli artisti fondatori di “Intermittenti Spettacolari”, un gruppo nato durante il primo lockdown, tra marzo e aprile. «Ci siamo visti abbandonati, qualcosa di latente già in precedenza alla chiusura – affermano Pietro Santangelo e Gianmarco Volpe – Abbiamo unito le forze, cercato di mettere insieme le idee e dare voce a un movimento. Chi vive di arte, spettacolo, musica è poco riconosciuto. A parte i riflettori del palco, nella società non ci sono i riflettori puntati sul modo di vivere e sugli aspetti critici di un artista. Vogliamo creare punti di riferimento sulla città e sulla Regione, uno sportello di informazione e aiuto per tutti quelli che vivono di arte, da chi la fa a chi lavora nell’indotto. Ormai viviamo da mesi questo stato e da tempo chiedevamo un reddito di emergenza. La ripartenza non c’è mai stata. Occorrono supporti che siano programmati. Si applichino riforme. Attualmente le condizioni sociali ed economiche legate alle pressioni fiscali non ci consentono di vivere questo come un lavoro».
Ancora più duro Luca Iervolino, attore e attivista del coordinamento “Arte e Spettacolo Campania del SI Cobas spettacolo”, secondo il quale «non sta andando bene niente. Questa crisi del nostro settore è più antica della crisi socio-sanitaria che viviamo. Il Covid ha scoperchiato il vaso di Pandora. Siamo costretti a sopravvivere con 1800 euro dal mese di marzo. Questo è l’aiuto delle istituzioni a livello regionale e nazionale. Proponiamo di perseguire una patrimoniale e uno stop alle spese militari, una tassazione sui grandi patrimoni e grandi ricchezze. Partiamo dalla situazione per cui il Fus (Fondo unico per lo spettacolo, ndr.) dovrebbe essere triplicato in Italia. C’è necessità di un cambio di direzione politica».
A manifestare anche attori in vista al grande pubblico, come Carlo Caracciolo, tra i protagonisti della serie Gomorra. La crisi è democratica, non guarda in faccia a nessuno. «Non riesco a capire perché in Italia dobbiamo arrivare alle cose con l’acqua alla gola – protesta il giovane interprete napoletano – Chiediamo rispetto della categoria come tutti i lavoratori. La mia carriera è in stallo. Avevo molti progetti. Tra questi un lavoro con la mia compagnia di Bologna, Caracò Teatro. Stavamo collaborando con la televisione satellitare Educatv. Una televisione per le scuole e i bambini, avevamo migliaia di abbonati. Con il lockdown è tutto chiuso. È difficile per chi fa questo mestiere».
A conclusione dell’incontro, l’attore Antonello Cossia ha citato Mejerchol’d e la sua concezione di teatro come nave: «Gli attori e i lavoratori con questo lavoro mantengono famiglie. E non è vero che con la cultura nono si mangia. Il teatro è la ciurma di una nave e sulla nave non ci sono solo i comandanti e i piloti, ci sono anche i marinai, i mozzi, i cuochi, c’è un intero mondo diviso in tanti settori». Nel leggere una poesia di Vladimir Majakovskij, “Il poeta è un operaio”, la voce di Cossia si è spezzata, eppure ha continuato, altisonante, a fare eco in tutta la piazza, ricordando il poeta della Rivoluzione Russa. Forse proprio in uno di quei versi in cui si parla della poesia come “pesca d’uomini”.
Ecco, proprio in questa definizione c’è da rimanere vigili e attenti, perché il mare che abbiamo creato è torbido, inquinato, sistemicamente tossico. Cosa si rischia di pescare? Con quali reti? Con quali imbarcazioni? Chi sono i pescatori? Abbiamo voluto far parlare unicamente i protagonisti di questa piazza. Resta la domanda, gettata all’inizio di questo pastone, come un amo nell’acqua. “Ma la cultura in Italia è un gioco o un mestiere?”.