Take a deep breath
di Eliana Petrizzi
Ci vediamo una volta ogni quindici giorni in una stanza al buio, schiarita solo da una finestra socchiusa. Non abbiamo niente da dirci, niente in comune. A me di lui non interessa; faccio l’amore con la sua giovinezza e con la cecità che in tante cose l’accompagna. Ma siamo pari: neanche a lui interessa niente di me. Non mi ha mai chiesto nulla della mia infanzia, del mio passato, del mio presente. Tra noi solo sconquasso; un vento caldo senza profumi né di terra né di mare. Alla luce del giorno siamo una medusa sbattuta sulla sabbia dalla risacca.
Una volta l’ho seguito in strada, l’ho guardato bene e non mi è piaciuto: i polpacci troppo grossi, un modo volgare di starnutire. Al buio invece, lui è sotto di me come la foresta vista da un aliante. Il corpo steso sul suo in perfetta corrispondenza di parti: le braccia aperte, le mani l’una sull’altra come il piede e la sua terra. Le vene delle sue mani: lampi di tuono, gli affluenti dell’Orinoco. I nostri respiri sono l’aria che ci voleva per tornare al mondo. Vedo la sua faccia scura, il suo corpo nervoso, il suo sorriso un poco storto, ignorante come il sole. Con lui accanto non vedo più niente, solo altezza e bianco. Poi stramazzo al suolo, dove la mia voglia di felicità incontra un identico bisogno di sventura. In fondo, ho sempre voluto qualcuno con cui non poter avere seriamente a che fare. A me sembrano più oneste le cose sgualcite, le giostre spente nel parco, la polvere del cantiere chiuso, il vento che ulula tra i pali della darsena; lo sguardo di chi, fissando l’orizzonte, sa che è sempre sulla soglia di un benvenuto che inizia l’addio.
Era pomeriggio, stavo camminando lungo una strada vicina a un cantiere in costruzione. Si è avvicinato a me, mi ha chiesto una sigaretta e abbiamo parlato un poco. Mi ha guardata attentamente e poi ha detto: «Allora che facciamo? Tu sei più grande, comincia tu». Ma siccome io non iniziavo, mi ha preso per un braccio e mi ha tirata dietro un muro. Io ho cercato di sottrarmi alla sua lingua, alla sua voce sporca, ma mi teneva ferma con una mano sul collo e io non ce la facevo a liberarmi. Mi ha stesa per terra e si è spogliato di fretta; poi ha spogliato me come si apre una merendina. Mentre mi teneva la mano sulla bocca, c’era nei suoi movimenti qualcosa di potente, come l’odore che si alza nell’aria dopo un terremoto. Era bravo, meglio di tanti altri. Quando ha finito, mi ha guardata negli occhi con un’espressione familiare. Sapeva che non avrei detto niente. Così ci siamo rivisti, e non c’è mai più stato tempo per le parole. Meglio stare zitti nell’amore: le parole sono pali mentre stai correndo. Io invece voglio essere come il vento, che non si cura di niente e odora solo d’aria.
Non voglio più occuparmi di dolori. Il dolore è come il parto: uno ci vuole, ma se poi ne viene un altro e un altro ancora, sei presto vecchia. Certi giorni mi dispero per la mia solitudine, scelta con l’entusiasmo di chi scala l’alta montagna, e finita con l’impotenza che solo l’alta montagna sa dare. Ma che io non abbia mai l’espressione gretta di chi ha saputo dire solo no, o passa domani. Meglio morta che non godere della vita, che non amare più di quanto non sia stata amata. Voglio andare al buio confidente e curiosa come nel bosco. Il sole illumina, ma è violento e non lo posso guardare. La luna invece posso fissarla per ore, e quando distolgo lo sguardo le cose intorno restano accanto a me, così intime e chiare.