Fear
di Eliana Petrizzi
La mia vita è un chewing-gum sputato a terra da qualcuno, raccolto, messo in bocca e ripreso a masticare. I miei giorni sono aironi finiti in una rete di confine, il cuore è un seme che non ha attecchito. I miei entusiasmi sono sportivi della domenica, le mie voglie archi tesi, senza frecce. Se penso bene di qualcosa mi spavento, e spero subito al ribasso. Le strade che percorro si districano nel raggio di sette chilometri, come pure le persone, le montagne e i muri. Le novità riguardano il decorso delle avarie o nuove cose che nascono, quasi sempre inutili o di pessimo gusto.
Con mio fratello ho rapporti sereni, ma di lui non mi curo. A mia madre e mio padre invece penso più spesso perché sono vecchi. Vivo in un silenzio interrotto dallo zampettare delle tortore sulle ringhiere, e dai suoni della vita che accade altrove. La mia dirimpettaia urla contro il marito, dicendogli che è un uomo inutile e che se morisse all’improvviso non se ne accorgerebbe nessuno. Il marito è un uomo smilzo che cammina piegato. Dopo le reprimende della moglie, ogni mattina alla stessa ora si tira a lucido ed esce di casa, lasciando per le scale il profumo di un deodorante economico che sa di ascelle sporche. Va a sedersi davanti al bar in piazza a leggere il giornale o a guardare gli altri. Quest’uomo, come molti altri in paese, mi fa pensare a una scena vista in un vecchio documentario, in cui un contadino uccideva un cavallo in un prato. Il contadino entrava nell’inquadratura di corsa, si vedevano il suo braccio che colpiva con un punteruolo la gola dell’animale. Il cavallo continuava a vivere come se non sentisse dolore, mentre dalla gola fiottava un getto di sangue scuro. Solo dopo molti minuti il cavallo ha avuto un cedimento e si è accasciato al suolo.
Vado a mangiare dai miei genitori, poi mi siedo in piazza, dove mi chiedo quando moriranno, chi prima e chi dopo, se a poca distanza l’uno dall’altra. Mi domando soprattutto come collocarmi rispetto alla loro scomparsa. Se chiedo alla vita: «Perché?», la vita risponde: «Perché sì», una risposta non meno insoddisfacente di quella che si ottiene dalla morte. In casa ho sgombrato tutte le stanze. Qualcosa di impercettibile nell’assetto delle cose non mi somiglia, e in questo mi riconosco.
Nel pomeriggio porto mia madre in ospedale. Osservo una signora: il figlio seduto accanto la fissa senza dire una parola, mentre lei continua un borbottio fatto di numeri, date e conversazioni tenute quarant’anni prima con persone defunte. Oltre le sbarre del letto, il figlio la fissa da un ponte, mentre lei annega in mare aperto.
Di nuovo a casa. Una chiocciola uscita dalla busta del prezzemolo è rimasta attaccata in un angolo del frigo, al freddo per giorni. Credevo fosse morta, ma quando l’ho posata sull’ortensia ha aperto due antenne che sembravano le dita di una mano. Ricordo da bambina le allegre compagnie nelle sere d’estate, il disordine di muri e strade, l’acciottolio dei piatti nei vicoli del paese, il solletico delicato di un insetto alle mie spalle, per il quale il mio corpo era solo un pezzo di strada tra il cespuglio e la pietra.