La condizione degli artisti di strada a Napoli durante la pandemia. ‘Le persone hanno paura di comprare o di avvicinarsi’
di Davide Speranza
Si racconta che Sting si sia travestito da artista di strada per osservare la reazione delle persone. Si dice che fu riconosciuto da una signora e che riuscì a racimolare pochi soldi. Quello era un gioco, un esperimento sociologico organizzato da una star che guadagnava milioni di dollari e sterline. La scelta di un mestiere girovago, voluta o obbligata, è altra cosa. Un teatro sempre aperto. Un tuffo nella marea animalesca delle masse urbane, a Roma in Piazza Navona, a Barcellona su La Rambla, a Napoli tra Piazza del Gesù e via Toledo, la famosa Arbat a Mosca.
L’esistenza di questi artisti è continuamente in bilico tra gioia donata, stento quotidiano, esplorazione umana, disperazione, filosofia di vita, cappelli e scatole in cui far tintinnare manciate di spiccioli, esibizionismo, audacia e sudore freddo (quello di quando torni a casa e calcoli quanto hai guadagnato per comprarti qualcosa da mangiare).
Tutti ricordiamo il celebre Zampanò e la sua Gelsomina, personaggi entrati nell’immaginario collettivo, protagonisti de La Strada. Quando Federico Fellini girò il film, che poi gli diede fama e un Oscar, voleva raccontare la presenza della Grazia dentro e fuori l’umano. Qualcosa di molto simile è presente nelle storie della scrittrice americana Flannery O’Connor. Non è questione di Grazia divina. È questione di disvelamento, di epifania di un percorso e di cosa siamo. La strada acquista una visione allegorica, come un di più riservato ai pochi che la intraprendono. Gli artisti, endemici al tessuto ciottoloso o cementato delle vie, raccontano attraverso i propri corpi, gesti, parole e silenzi quell’epifania che riguarda noi tutti. Ma in cosa sta mutando la strada, con l’avvento del Covid? In giro c’è poca gente, quando va bene. Turismo, zero. Nessuno si ferma. Si ha paura anche a dare quello spicciolo che prima si cercava di spremere dalle tasche. Gli artisti di strada sono in difficoltà, una categoria da sempre fuori dal canone, e adesso – con il distanziamento fisico che ne mina la presenza e l’essenza stessa – ancora più fuori da qualsiasi categoria.
A Napoli sono in tanti a mettersi sui marciapiedi, poggiati alle mura, nelle conche e sotto i portoni dei palazzi o delle chiese. Il Covid ha sorpreso anche loro, osservatori di una giungla fatta di animali civilizzati. Come cambia questa prateria/strada? Come muta la gente attaccata dal virus? Non tutti sono disposti a rispondere alle domande. Alcuni sono infastiditi, altri preoccupati. Ma c’è qualcuno che risponde e piano piano si forma un consenso sulla narrazione di questi tempi da Purgatorio, fornendo una prospettiva privilegiata e al margine. Tra di loro, Piermacchié, 41 anni, di Napoli, vissuto a Monte di Procida per 20 anni e altri 20 nel capoluogo partenopeo. «Ho voluto conquistare questa città che vedevo da lontano – racconta –. Vedevo il Vesuvio, volevo vivere a Napoli e ci sono riuscito. Ora sto nella casina di mia nonna». Ma cosa significa essere artisti di strada? «Essere il più libero possibile, riuscire a esternare quello che si vuole – tiene a chiarire – Io ho fatto teatro, spettacoli, però si è sempre filtrati nel messaggio e, se sei filtrato negli ambienti pubblici, allora è un problema. Quando sei in strada puoi invece dire e fare quello che vuoi. C’è poi chi ti apprezza e si ferma. Chi no, se ne va».
Piermacchié (Pierangelo Fevola), ha studiato Scultura all’Accademia di Belle Arti e Mandolino al conservatorio di San Pietro a Majella. Poi la scelta di viversi in strada. «Mi rende felice – confessa – Sperimento, non mi fermo. Continuo sempre a valutare la mia esperienza. Quello che voglio è costruire una maschera, una figura simbolica. La mia maschera nasce da Pulcinella e Totò. Quando ero bambino vedevo questi elementi fantastici, i personaggi delle maschere. Totò, certo, era un attore ma è l’ultima maschera della Commedia dell’Arte. Ho cercato di evolvere questi pezzi. Il mio costume ha un cappello a cilindro. Eduardo diceva che al cilindro si arriva. Io invece parto dal cilindro. Un cappello che all’estremità è vuoto, evocando il Vesuvio e il Pulcinella dei quadri di Tiepolo. Poi la giacca, un piccolo tight che si rifà all’epoca dell’Ottocento. La parte di sotto è giullaresca. Io sono fatto così, anche in quello che scrivo, in una lingua neo stilnovistica, un Dolce Stil Novo mischiato al napoletano e a parole attuali. Vengo da un Medioevo che sfocia nel Novecento arrivando ai giorni nostri».
Piermacché si lascia trasportare da una ruota elettrica. Risuona il circo dei funamboli (ritorna la visione felliniana). Con lui, una marionetta. È lei a dirigere lui. Ma adesso la musica si è fatta meno gioiosa. L’arrivo del Covid e la paura della gente ha cambiato il suo habitat naturale. «La gente non si ferma quando mi vede suonare, sta poco tempo, quel minuto. La strada è cambiata, sta cambiando tutto. Le persone sembrano zombie. Questa cosa è brutta, ci fa abituare a uno stile di vita che non ci appartiene. Napoli non è così. Il napoletano è una persona fraterna, “azzeccosa” quando ti dice una cosa. Nel futuro di artista di strada, vedo una Napoli meno Napoli, sempre più sventrata, non alla Matilde Serao, ma nei suoi valori e nella sua storia. Questo è il male assoluto».
C’è anche chi un lavoro più o meno ce l’aveva, ma precario, zoppicante e con l’avvento del virus ancora di più. Così la strada, già scelta come mestiere in affianco, diventa l’unico strumento di guadagno. Lo sa bene Pino Rosi, trombettista e magazziniere, che fa un po’ da riferimento “sindacalista” del popolo di strada. Ha studiato anche lui musica a Napoli, allievo di Bruno Persico al CFM (Centro Formazione Musicale) e con la sua tromba mette in circolo le note di film famosi come Amarcord, La vita è bella, Nuovo Cinema Paradiso, o la musica d’autore con le canzoni di Lucio Battisti, Stevie Wonder, Fabrizio De André, Luigi Tenco, un repertorio jazz e da classica napoletana.
«Normalmente faccio il magazziniere, la tromba è la mia passione – dice Rosi – Ma non ci sono posti di lavoro o prendono per pochi giorni e dopo non gli servi più, ti mandano a casa pagandoti in nero se ti pagano. Allora ho deciso di fare questo. Ma i tempi sono durissimi. Stiamo campando di stenti. Suono la tromba da 20 anni. Ho fatto parte di band e gruppi musicali e avevo un quintetto con cui giravamo per locali. Poi è diventato un trio. Non riuscivano a pagarci. Sono rimasto solo io a fare gli aperitivi, adesso neanche questo, perché i locali non hanno più nulla da dare. La strada mi ha dato tanto. Ma le cose stanno trasformandosi rapidamente con il Covid. L’anno scorso si guadagnavano anche 70, 80 euro, suonando 5 ore. Adesso non si guadagna neanche il 25%. Nonostante abbiamo un’ordinanza del Comune che ammette con determinate regole la nostra attività, spesso siamo malvisti da ristoratori, pizzerie, negozi che non sopportano la nostra presenza, non rispettano il nostro lavoro e spesso si comportano molto male nei nostri confronti per non parlare dell’insofferenza degli abitanti adiacenti che si lamentano… quindi chi getta scarpe, chi butta bacinelle d’acqua dai balconi, chi uova e tanto altro. Siamo alla soglia dell’inciviltà… poi il Covid chiude tutti dentro casa e tutte le attività. Chi possiede un reddito di cittadinanza, una partita IVA, un contratto di lavoro certificato usufruisce dei benefici dello Stato. Noi bistrattati lavoratori in nero semplicemente non esistiamo e con il lockdown moriamo di fame».
Pino Rosi sta girando insieme al collega percussionista Giulio Tumminelli. Il guadagno si divide, ma è dura. L’inverno è alle porte, la questione delle zone rosse e gialle è in continuo cambiamento. «Stiamo provando a fare qualche petizione – aggiunge – Spero riescano a riconoscere anche noi. Metteteci a casa ma dateci la possibilità di vivere. Dopo essere tornati a casa, abbiamo dita rotte e la bocca che fa male. Dobbiamo sopravvivere».
Una condizione nuova, disturbante. Fare l’artista di strada prevede un ascolto, mani che facciano scivolare una sintonia (oltre che soldi). Le strade di Napoli, oggi, sono strane. La gente cammina, ma non si accalca, non spinge, non affolla. Soprattutto, non si ferma più a godersi questi spettacoli di artigianato esistenziale. Il disegnatore e pittore napoletano Claudio Zaddei, 28 anni, da 10 lavora tra le viuzze partenopee. Di solito àncora la sua postazione su via Benedetto Croce. Un carrellino con le valigette dei colori a olio, e tele da lui costruite.
«Fin da piccolo disegnavo, ma non avevo mai avuto il coraggio di espormi – ricorda – Con l’aiuto di un amico, mi sono buttato. Facevo piccole mostre ma non si sentivo soddisfatto, poi ho deciso per un rapporto più stretto con il pubblico. La strada è immediata, una cosa reale, non ci sono mediatori. Il pubblico risponde immediatamente, non c’è una precostruzione, la persona si ferma e si presenta davanti a una piccola mostra istantanea. Ho sempre amato Bosch come artista. Mi interessa illustrare una struttura in bilico, qualcosa che sta per cadere, la foto immediata del momento in cui si è materializzata la storia, senza sapere il prima e il dopo». Uno squilibrio che adesso si manifesta nella vita reale, davanti ai suoi occhi. «Sto vivendo malissimo questa cosa del Covid – spiega – Come se improvvisamente fosse cambiato il canale della televisione. Si sta trasformando tutto, dal punto di vista sociale ed economico. C’è un distacco, per paura di rischiare la malattia. Cambia l’approccio con la gente. I clienti più affezionati vengono comunque, ma non ci sono più turisti e il guadagno stenta. Il processo creativo non è stimolato, non c’è il motore, se pianti un albero e non lo innaffi, quello inizia ad appassire, cioè voglio dire che non c’è sinergia tra me e il pubblico. Certe cose non le posso fare più. Mi sento disorientato, è una situazione nuova, devo capire come muovermi».
Musica, teatro, pittura. In strada trovi storie che vanno oltre l’immaginazione. Storie dentro altre storie. Dove la strada è solo una parte del cammino. È l’esempio di Ida Miriam D’Amici, romana, classe 1975. Donna che ha girato il mondo, prima di arrivare a Napoli per amore. «Poi mi sono separata e continuo a vivere qui perché sono innamorata di questa città – Ida parla e, nel mentre continua a cucire e creare nodi, nella sua voce e in quello sguardo libero e ferito si impastano i ricordi – Mi piace il modo in cui si riesce a comunicare tra gli estranei, non c’è l’individualismo che invece vive a Roma, e poi amo il mare a due passi, mi fa respirare aria diversa». Ida Miriam crea tessuti a mano, il macramè. «Una tecnica millenaria di tessitura utilizzata con intrecci di nodi pescatori, attraverso i quali si creano oggetti, orecchini, bracciali, collane. Uso il filo cerato. Un filo con la paraffina».
Prima lavorava come chef pizzaiola nella Capitale. Ma aveva già tanti altri mestieri sulle spalle. Si adattava al paese e alla cultura locale del momento. A Napoli aveva tentato anche la strada dell’edilizia. Ma l’esperienza più forte l’ha attraversata in Centro America, negli stati del Messico. «Ho tessuto reti da pesca dove ancora i pescatori si tramandano tecniche secolari. Quando non si lavorava a mano per il tempo brutto, si riparavano le reti di altri pescatori. Ho vissuto in posti in cui si va avanti giorno dopo giorno. La gente era cordiale, molto felice di avermi lì come ospite, era una cosa bella, ricevevi inviti nelle loro case, mi invitavano nelle capanne. Sono stata nello Stato di Oaxaca, di Veracruz, del Messico, lo Stato di Puebla, in zone di mare e villaggi di montagna dove avevo a che fare con animali e legna. Non ho mai fatto la turista. La strada è stata una scelta. In passato avevo già lavorato come musicista, suonavo e cantavo. Amo tutta la musica, non quella più moderna».
Vivere e lavorare come tessitrice, in mezzo alla gente, le dona un mistero quotidiano, un senso dell’ossigenazione diversa da quella organica, differente dalle mura casalinghe. «La strada mi dà modo di conoscere tante persone, lavorare con il mio ingegno, con colleghi dai cui imparo altre cose, l’opportunità di organizzarmi. In tempi normali questo era il periodo in cui si produceva per il mercatino di Natale, ma ora no. Da un mese non vendiamo più. La gente ha paura di comprare, di avvicinarsi. Molte persone sono state licenziate e non pensano ad acquistare oggetti non di necessità. Questa cosa sta creando una distanza ampia tra gli esseri umani. Si parla della nuova normalità a cui io non mi abituerò mai».