In dialogo con Pasquale Sbarra, direttore della fotografia di un cinema che resiste anche in pandemia
di Davide Speranza
Il cinema globale. Una risposta all’invisibile che spezza i contatti e le percezioni fisiche. Una svolta che riaccende i palpiti della creatività e dell’inventiva umana. Non siamo ai tempi della riforma Dogma 95 avviata dai geniali registi Lars von Trier e Thomas Vinterberg, ma la pandemia ha costretto il cinema a riflettere, a ripiegarsi su se stesso, formulando da capo alcune priorità, e costringendo gli addetti ai lavori a ripensare il mestiere della finzione. Una possibilità di rivoluzione.
Da qui parte l’impresa che il giovane Pasquale Sbarra ha avviato insieme ad altri cineasti sparsi per il globo terrestre: Chasing Spielberg. Un film fatto a distanza. Una storia a pezzi, nella sua ideazione, nella sua progettazione e realizzazione, nel suo scheletro e nei suoi organi più intimi. Un’opera filmica assemblata, attraversata dalle molteplici lingue di coloro che, durante il lockdown, hanno cambiato il concetto di “tempo sospeso” in quello di “possibile ripensamento”. «Il progetto nasce a marzo 2020, praticamente in piena pandemia – racconta l’artista napoletano – Dopo aver faticato a trovare un lavoro, scoppia il Covid e mi rimandano a casa. Giravo su LinkedIn speranzoso di trovare qualcosa. All’improvviso un annuncio dello sceneggiatore Robert Tobin. Diceva che, dato il periodo di difficoltà per tutti i creativi, avremmo dovuto provare ad approfittare di una situazione difficile per tutti e fare qualcosa. Il suo obiettivo era sviluppare un film da remoto. Non avevo niente da perdere e risposi all’annuncio. Cominciò a crearsi un gruppo, prima numeroso e poi ristretto. Sono rimasti coloro che ci hanno creduto fino in fondo. Robert ha messo a disposizione alcune delle sue sceneggiature. Ha vinto diversi premi negli Stati Uniti e ha molta esperienza. Così è venuto fuori un team di sei persone: una canadese, quattro americani, un italiano».
Quell’italiano, campano, napoletano, è Pasquale Sbarra. Robert Tobin era stato in vacanza in Campania, in particolare sulla costiera amalfitana e a Capri. Ma è grazie al giovane filmmaker partenopeo che inizia a conoscere (da lontano) la cultura made in Sud. La realizzazione del film diventa pian piano scambio di visione culturale. «Li sto “portando” a conoscere Napoli, la periferia. Gli mando foto, immagini, gli racconto il nostro territorio, l’ottava municipalità che probabilmente conoscono solo nelle traduzioni di Gomorra. Non penso sappiano cosa succede nei quartieri di Chiaiano, Marianella, Piscinola e Scampia» dice Sbarra. Intanto il progetto andava avanti.
Chasing Spielberg era sembrata la sceneggiatura più adatta. L’idea di partenza era quella di far leggere spezzoni del testo agli attori. «Però ci rendemmo conto che stavamo lavorando bene – continua Sbarra – Abbiamo preso a sviluppare un piano di budget, un piano esecutivo, un lookbook che ho curato io. Ho iniziato a occuparmi della direzione della fotografia a distanza. Da casa ho dato direttive prima che si girasse il trailer insieme al montatore e al regista, abbiamo studiato quali toni e atmosfere dare. Nel lookbook abbiamo spiegato il film, la trama, la tonalità, la fotografia utilizzata, lo storyboard, la visione che ne dava il regista, chi sono gli attori, chi ha partecipato al progetto, insomma un trailer su carta. Preparammo tutto e iniziammo a pensare a un produttore. C’era la possibilità che qualcuno comprasse il progetto ma lo avremmo perduto. Abbiamo iniziato ad affezionarci a questo film e al team. Così il trailer ce lo siamo prodotti da soli. Abbiamo fatto un piccolo investimento, noleggiando attrezzature, scegliendo le location per girare, pagando gli attori. Quando mettemmo l’annuncio per gli interpreti, ci fu una risposta incredibile».
Ed è così che è partita l’avventura, con al timone della nave la regista Beverly Batzel. Il film vede protagonista un uomo, uno sceneggiatore cinematografico, con alle spalle sogni e dolori. Cambia radicalmente vita, finché non si ritrova di nuovo ad affrontare quegli stessi fantasmi del passato che credeva essersi lasciato alle spalle. Ma adesso ha un motivo in più per raddrizzare il proprio destino. «Questa esperienza, dal punto di vista umano, è stata un modo per capire quanto simile sia il mondo, nonostante la diversità di culture – spiega Sbarra – Mi chiamano Lino, perché Pasquale per loro è difficile pronunciarlo. Sto imparando molte cose sulla figura del produttore. Soprattutto ho trovato sintonia con la produttrice canadese Nadia Zaidi che mi ha dato una opportunità con la sua casa di produzione, chiamandomi come montatore per un documentario dal titolo “Eight” che tratta dei trapianti d’organo. Questo mi darà l’occasione per collaborare anche a una serie TV in Canada. La cosa che mi ha colpito è stata la fiducia. Mi conoscono soltanto tramite uno schermo, un computer, un cellulare. Ma non hanno visto altro, hanno visto i miei lavori, i miei video, i miei progetti. Una fiducia così profonda, che qui a casa nostra nessuno mai mi ha dato».
Ecco la possibilità. La gioiosa voglia di rivoluzionarsi e cambiare il mondo intorno, nonostante la tragedia. È il bigliettino da visita delle nuove generazioni e di un giovane che ci ha sempre creduto, tanto da diventare videomaker ufficiale alla Biennale di Venezia. Una conquista raggiunta grazie all’esperienza di studente, consumata nelle aule dell’Università degli studi di Salerno, a Fisciano, e partecipando al corso di cinema condotto da Marco Pistoia all’interno del Davimus (Discipline delle Arti visive, della Musica e dello Spettacolo). Pasquale fu scelto per Venezia 74. «Io e il collega Roberto Cortazzo, fummo mandati nella giuria alla sezione Venezia classici. Ci portammo le Reflex per documentare la nostra esperienza. Girammo dei video, correvamo sui red carpet, ci infilavamo in posti dove non avremmo potuto e la notte rientravamo in albergo montando materiale». Quei video sui social andarono bene, talmente bene che i responsabili della comunicazione del festival li presero come video ufficiali. «Tutto nato per caso, per fortuna, cazzimma e faccia tosta – ammette il giovane cineasta – La nostra boss si chiama Flavia Fossa Margutti, una persona straordinaria. È come se ogni anno giocassimo la Champions League».
L’origine di questo piccolo successo risiede nella scelta fatale del percorso universitario, virata su quella strana facoltà, dove cinema, teatro, arte diventano territori vasti e pericolosi da conquistare. «Quando c’è di mezzo la creatività è sempre una scelta rischiosa. Ma abbiamo il coraggio di far parlare il cuore e inseguire i sogni come il protagonista del mio film – e mentre parla, Pasquale mostra una sicurezza pura, di quella purezza che servirebbe a rivoltare il mondo – Non vengo da una realtà benestante. Abito nella periferia nord di Napoli, sono cresciuto in casa insieme a mia madre, mio padre, i miei nonni, mia sorella. Il piatto a tavola non è mai mancato, il tetto sulla testa ce l’ho ma non è semplicissimo. Ci si sacrifica. Si fa sempre il meglio. Non mi sono mai macchiato. Ho sempre sfruttato le potenzialità che mi ha dato il mio quartiere. Il mio sfogo è stato passeggiare tra le strade del paese per trarne il buono. Non per forza, se parti dall’ultima fila, sei destinato ad arrivare ultimo. Certo, devi correre di più, però posso fare gli stessi step degli altri. Grazie al sostegno morale di tutta la mia famiglia. Sono un po’ la loro bandiera, un riscatto. Ci spero soprattutto per loro. Metto al primo posto la riconoscenza. Il cinema l’ho sempre visto come la mia fuga dalla realtà. Ricordo ancora, quando nella parrocchia del mio quartiere incontrai una persona importante, Danilo Cunsolo. Fu lui a capirmi e a indicarmi il Davimus di Salerno. Mi accompagnò ed è stato grazie a lui che ho seguito le lezioni, dandomi ogni giorno lo strappo all’università, altrimenti non avrei potuto seguire le lezioni. Ma la persona da cui ho ereditato tutta questa passione è mio padre, che non passa giorno senza vedersi un film».
È così che un 26enne, dal piccolo quartiere di Chiaiano – con tutte le difficoltà esistenti e insistenti su certi territori del Napoletano – è riuscito ad alzare la testa, ad emanciparsi da certi cliché da Sud. Il cinema è la terra promessa. Pasquale ne ha fatta di strada, dai corsi con docenti illuminati come Annamaria Sapienza e Alfonso Amendola. Adesso si ritrova a dirigere la fotografia di un film internazionale. «Tra i miei sogni più grandi mi piacerebbe fare qualcosa per il mio quartiere, per i bambini di questa terra che dal punto di vista culturale non offre molto. A volte mi rendo conto che sono stato un fortunato e la storia poteva essere diversa. Ho avuto la fortuna di incontrare la famiglia giusta, la ragazza giusta, amici con cui ho condiviso tutto. Quando cresci in determinati contesti è più complicato. Devo ringraziare le persone che mi hanno dato il modo di diventare quello che sono».