Picasso, breve storia di un lungo viaggio
di Eliana Petrizzi
Trovarsi dinanzi ad un quadro di Picasso vuol dire cogliere tutta la complessità di una formazione che comprende un lungo cammino nella storia dell’arte. Partendo dalla lezione leonardesca sul disegno, inculcatagli dal padre negli anni giovanili, Picasso attraverserà i linguaggi post-impressionisti e il realismo di Courbet, recupererà il colorismo neoespressionista di Matisse, il neoclassicismo di Raffaello e di Ingres, affronterà le discese catacombali nell’inconscio di Goya; incontrerà poi la sintassi degli archetipi primitivi, approderà all’elaborazione cubista di cui è padre, attraversando persino le suggestioni del Surrealismo. Ritroverà infine l’intuizione di coniugare natura e astrazione, sensazione e idea, che fu di Piero della Francesca prima e di Cézanne poi.
La straordinaria ricchezza di ogni sua opera deriva di fatto da una forte consapevolezza storica della pittura, per la quale anche le sue creazioni più decostruite restano in fondo sempre classiche. Perché Picasso è un grande classico? E che cos’è in fondo il classico? Se il Classicismo è la visione di un tempo circolare fatto di memoria, integrazione e completezza, Picasso è classico per la sua appassionata coscienza del mondo oggettivo, per il suo approccio rapace alla realtà delle cose, radicato in una visione della pittura come azione concreta. È classico per la sua febbre di uomo, di natura e di storia, ed è un classico militante, perché riflette problematicamente sulla missione dell’artista. In questo percorso, Picasso recupera l’origine rinascimentale del concetto di classico. Nel primo ‘500, l’uomo diventa il cardine della conoscenza e il grande mediatore tra storia e natura. La storia è il tempo evolutivo che costruisce l’uomo in quanto essere completo. La natura è la dimensione del simbolo e del mito, che ci parlano in forma di armonia e bellezza.
Nel 1914, in anni in cui l’esperienza cubista – e cioè un’esperienza apparentemente anticlassica – era in una fase già avanzata della propria maturazione, Picasso dipinge Il pittore e la modella, realizzando un dipinto pieno di grazia che pare incompiuto ma che reca in sé tutti i linguaggi cari all’artista: il disegno, il senso plastico del colore, lo spartito compositivo solido e ordinato, la monumentalità delle forme. Ed ecco, al centro di un’opera antica, irrompere la contemporaneità di Picasso: nell’astrazione dell’immagine, attraverso il fantasma della figura femminile. Picasso ritrae infatti la sua giovane compagna del tempo, che sarebbe morta di lì a poco di cancro. Picasso è consapevole dell’imminenza di questa perdita, per cui dipinge – nel corpo della sua donna – il fantasma che già l’aspetta, fantasma che ricorda il trauma di una perdita precedente, che segnerà la sua cifra di artista inquieto. Un giovanissimo Picasso, seduto accanto alla sorella morente, chiede a Dio di salvarle la vita. In cambio, Pablo promette di rinunciare al suo talento. Ma pure, segretamente, Picasso spera di infrangere quel patto, augurandosi la scomparsa della sorella invece che la rinuncia al suo destino d’artista. La piccola Conchita morirà, e attraverso questa perdita Picasso potrà riappropriarsi in pieno del suo percorso creativo. Ecco allora il tema della ferita diventare leitmotiv di tutta l’arte di Picasso, fino a tradursi in metafora di una pittura sempre in bilico tra classicità e contemporaneità.
Picasso scopre la classicità del mito durante il suo viaggio in Italia nel 1917, subito tradotta a specchio della sua vicenda personale. Le forme del racconto antico diventano personaggi di una mitologia familiare, in cui divinità e fauni prendono di volta in volta le sembianze delle compagne dell’epoca, dei figli, delle giovani amanti. Di fatto, Picasso dipingerà per tutta la vita sempre e solo se stesso, calandosi nella figura del Minotauro: creatura mostruosa dalla testa di toro, fauno lussurioso, Priapo satanico che infuoca il reale di un magma erotico dannato; simbolo dell’inconscio bruto, che pure conserva tratti malinconici e uno stupore infantile. Ma il Minotauro è anche l’artista moderno, col suo tormento di non riuscire a dare forma piena al linguaggio, di dover accettare il dramma dell’irreversibile e l’insolubilità di ogni conflitto: radici concettuali della grande arte contemporanea del XX secolo.
Negli anni della vecchiaia, il Minotauro è un mostro vecchio e cieco tenuto per mano da una piccola figura femminile – di nuovo il fantasma della piccola Conchita – che lo conduce dinanzi ad uno specchio, simbolo di discesa e di espiazione attraverso il potere della memoria. Un’espiazione che pure, nell’attività forsennata di questo straordinario artista, non giungerà mai a compimento. Picasso dipinge infatti fino alla notte prima di morire, all’età di novant’ anni. Una grande tela raffigura un corpo nudo che s’immerge nel blu di un primitivo mare battesimale: Mediterraneo padre dei suoi antichi racconti, ma pure mare contemporaneo, cupo mare freudiano che appartiene a ciascuno, quello in cui ogni grande artista si immerge da solo, per missione e per destino, sempre.