L’arte nelle città
di Eliana Petrizzi
Costruire luoghi attraverso le opere, vuol dire prestare la propria visione a un confronto dialettico tra realtà urbana e sociale, generando nuove piste di senso nell’abitare gli spazi. La relazione tra la città e i linguaggi dell’arte non è recente: il potenziale espositivo delle città viene intravisto già alla fine del XIX secolo, dalla pittura (i manifesti pubblicitari di Toulouse-Lautrec) e dalla scultura (le prime opere site-specific di Auguste Rodin e Medardo Rosso), in un dialogo col sociale che passerà dall’happening futurista a quello dadaista, dalla fucina di talenti al servizio del Bauhaus alla pittura murale di Léger, Siqueiros, Orozco e Rivera, fino alle manipolazioni performative della Land Art. Un dato è chiaro da tempo: la città ha bisogno dell’arte almeno quanto l’arte ha bisogno di una dimensione metropolitana. Gallerie e musei non bastano più. Se il museo tradizionale, per sopravvivere, diventa oggi attrattore, il museo attivatore si sposta nello spazio aperto, che agisce sul territorio da un lato creando attenzioni alla cultura dell’arte, dall’altro attivando innovative, oltre che indispensabili politiche di riconversione urbana.
Anche il rapporto tra uomo e spazio circostante è mutato, nella realtà come nelle rappresentazioni dell’arte. Se pensiamo ai dipinti del primo Rinascimento, ricordiamo che sullo sfondo dei ritratti era possibile scorgere un paesaggio naturale o una città ideale, che descriveva il rapporto tra la dimensione particolare dell’uomo e quella universale della Storia e del Creato, dove l’uomo – ragione e misura di tutte le cose – era accordo tra i due poli. Le città medievali e rinascimentali si irradiavano a partire da un’agorà centrale, luogo reale e simbolico di tutti gli scambi relazionali. Le città contemporanee, al contrario, gravate da molteplici esigenze, si sono sciolte in un moto centrifugo che ne diluisce lineamenti, riti condivisi e collanti identitari. In questo senso, la città contemporanea è un luogo metafisico, più aperto al possibile che a un dialogo col passato, col quale pure è in serio debito.
Nella città contemporanea si collocano gli interventi degli artisti, che intrecciano con l’habitat una relazione creativa di tipo comunitario, in cui poiesis e téchne diventano finalmente polis. Il rapporto tra arte contemporanea e città resta però delicato. Nel secolo scorso, nelle sue Pagine postume pubblicate in vita, Robert Musil osservava che i monumenti non si vedono, perché “tutto ciò che dura perde la forza di colpire”. Purtroppo e per fortuna, almeno da questo punto di vista l’arte contemporanea si salva. Per sua natura liquida e provvisoria, forse può non durare, ma di certo non può non colpire, per quel suo porsi come oggetto estetico deflagrante, shock visivo, oggetto estraniato ed estraniante, molto lontano dalla celebrazione della storia, delle virtù e della bellezza ideale, cui nella statuaria classica erano votati i monumenti pubblici. Il dibattito tra sostenitori del contemporaneo e nostalgici del passato è vecchio e duro a risolversi. Attraverso gli studi di storia dell’arte, abbiamo conservato dell’antichità il ricordo di un’arte fatta di maestria e disciplina, in cerca di una possibile unità tra natura e storia, idea e forma, privato e collettivo, umano e divino. La soggettività di visione dell’artista ha in seguito infranto molte cosmogonie, per concentrarsi sui riflessi dell’Io nel mondo, proiettati su una moltitudine di schegge infrante. Il caleidoscopio è stato ed è tuttora interessante ma ciò non toglie che la nostalgia non sia né un peccato né un limite, e che guardare all’arte del passato può servire spesso a comprendere meglio chi siamo oggi.
È difficile comprendere il nostro tempo. Molta arte contemporanea pare fatta di opere arroganti, senza alcuna responsabilità né estetica né metafisica. Per curare derive e pericolose forme di frammentazione, può l’arte di oggi realizzare nuove forme di appartenenza? Può risolvere conflitti? Può dare ancora bellezza e speranza? Può prospettare orizzonti di senso in cui uomo, ambiente e storia possano ritrovare un’identità profonda? Se classico vuol dire armonia e sentire condiviso, contemporaneo significa tante volte insanabilità dei conflitti e impossibilità di ogni equilibrio; è sottoscrivere patti di fedeltà piuttosto con ciò che manca, che resta in bilico, incapace sia di individualità che di interdipendenza. Ed è qui entra in gioco il potere unificante e consolatorio della forma. Attraverso la responsabilità delle forme, è possibile condividere narrazioni e nuove mitologie. Le città hanno bisogno di operatori e mediatori culturali che aiutino a rivedere i concetti di patrimonio e di identità collettiva. L’arte contemporanea interviene nelle nostre città a contrastare una brutalità edilizia fatta di piani regolatori ottusi, di cemento a prescindere, di individui imbrigliati in una rete di solitudini o di relazioni mancate. Ma può fare di più, per esempio innescando processi poetici capaci di sottrarre i luoghi alla definizione che ne diede Marc Augé di luoghi atopici, “non luoghi”: posti da cui si parte o in cui si arriva, senza la possibilità di restare. Altre volte, lo fa ricorrendo a un’azione spettacolare che coincide col raggiungimento dello scopo: quello di contrastare l’autismo estetico dei luoghi.
Tra sinergie e antinomie è però necessario che lo spettatore si faccia più attento, acquisendo consapevolezza del suo ruolo attivo, per evitare che pure le nuove strategie estetiche finiscano per ricreare l’assopimento collettivo che in origine avevano inteso contrastare. In questo senso l’arte nelle città, più che stupire, deve aderire all’identità di un territorio, rispettando le sue memorie e il suo spazio naturale, in un processo di culturalizzazione dell’antropologia e della natura, capace di contraddire la disgregazione del senso e della speranza, così tristemente tipica del contemporaneo. Ogni linguaggio artistico, dialogando con i luoghi e i suoi abitanti prospetta nuove piste di percezione, rendendo visibile l’inevidente, ma anche disegnando orizzonti immaginifici (come ha sempre fatto la pittura, e come fanno oggi le tecniche digitali), organizzando nuove forme di convivenza attraverso dibattiti visivi e interscambi di linguaggio. Si dovrebbe parlare oggi, in fondo, proprio di questo: di un’estetica che esca dal rapporto autoreferenziale tra l’artista, il suo studio e la sua opera, per diventare condizione di reciprocità generosa; un’arte comunitaria che, almeno nelle intenzioni, curi la velocità bulimica e l’anonimia in cui individui frettolosi possano imparare a fermarsi, ritrovando nelle città – anche e soprattutto attraverso le opere d’arte – quegli archetipi che solo l’arte sa rievocare e reinterpretare, generando nuove forme di appartenenza.
Immagine di copertina: “La ballerina” di Jeff Koons