In dialogo con Vincenzo Canzanella, patrimonio a rischio di una Napoli in oblio

di Davide Speranza

Si sale con un ascensore che trema, trema tutto e si arriva sopra. Qui è la zona di Sant’Eligio Maggiore, dove la Chiesa omonima e il complesso monumentale svettano e si comprimono dentro le viscere frastagliate adiacenti Piazza Mercato. Stiamo parlando di uno dei luoghi più straordinari di Napoli, con una chiesa angioina risalente al 1270. Al sesto piano del palazzone quadrangolare – nel cui atrio si trova un chiostro fiabesco che fa pensare alle storie di Giambattista Basile – si trovano la A.A.C.39 Associazione Artistica Culturale-Museo Storico della Moda e del Costume teatrale e la C.T.N. 75 La più antica Sartoria Cine-Teatrale e Televisiva di Napoli.

Il mago dei tessuti è un uomo di 82 anni, con gli occhiali, una voce gentile, d’altri tempi si direbbe, quella inflessione dialettale che fa pensare alla sveglia prima dell’alba, alle carezze sul capo dei figli mentre ancora dormono, i clamori della guerra, al caffè mischiato al cotone, la morbidezza della seta accompagnata dalla polvere del teatro, lustrini, gorgiere e gonne d’alta moda. Un miscuglio proveniente dalla povertà e poi dalla frequentazione della nobiltà e dell’alta borghesia napoletana. Vincenzo Canzanella ha vissuto un’esistenza nobile, di quella nobiltà rapportata all’animo piuttosto che al conto in banca. Teatro, cinema, televisione.

La sua sartoria ha vestito mezzo mondo dello spettacolo, a Napoli come in Italia. Ora rischia di essere sfrattato dalle istituzioni locali, con tutti gli oltre quindicimila capi (tra costumi e oggettistica) ammassati nel deposito-magazzino e nel museo. Eduardo De Filippo, principi e principesse, sfilate, attori e cantanti, registi, grandi teatri internazionali e compagnie. Ditene uno: Canzanella era lì a tagliare e cucire il vestito. Costumi sontuosi conservati ora nel piccolo museo del  traballante sesto piano. Il tempo si ferma sulle cose come la luce che entra dolce dalle finestre. Nell’intero stabilimento, resiste lui, il vecchio cane Filippo, e due suoi collaboratori.

«Vedete qui? – indica con le sue mani piccole e mischia passato con il presente, drammaturgia con persone in carne e ossa – Un costume romano realizzato per il film Scipione l’Africano, e poi locandine di Filumena Marturano, Eduardo De Filippo, il Teatro San Carlo, fotografie della principessa Camilla di Borbone, Alberto di Monaco, sfilate di moda, Pupella Maggio con Angela Luce, i costumi realizzati per spettacoli come La Viceregina di Napoli del Seicento all’epoca del Masaniello, Il contratto con Renato Guttuso e le musiche di Nino Rota, costumi del Settecento, opere per il Museo di Capodimonte, per la Cenerentola a Losanna in Svizzera, Carla Fracci a Helsinki, un patchwork fatto a pezzi per la mostra internazionale del costume in Cina all’interno del Teatro dell’Opera di Pechino, Renato Carpentieri, Mario Del Monaco, l’Aida in Egitto, Maria Callas che ho vestito con tutti i cimeli, la duchessa d’Arcos, Anna Proclemer e Giorgio Albertazzi, Anna Bolena ed Enrico VIII, un’opera in Spagna a Barcellona, bottoni di inizio Novecento, La Pergola di Firenze, il Piccolo Teatro di Milano, La Fenice di Venezia, costumi di San Leucio, Anna Mazzamauro, Lina Sastri, Massimo Ranieri, Annibale Ruccello, Teatro dell’Opera di Roma, la Turandot, Laura Efrikian».

I nomi e le storie cozzano con l’umidità che sfalda gli angoli del soffitto, la luce che manca, l’ascensore traballante che per tre anni non è stato messo in funzione, lo sfratto. Sul bancone dell’ufficetto, i volumi vecchi con la firma di Eduardo e gli occhiali a scatto che il Maestro usava in scena, adesso di proprietà di Canzanella. «Il primo lavoro in Rai fu con Pippo Baudo – racconta il Mangiafuoco dei vestiti – Le prime trasmissioni, poi lo sceneggiato Obiettivo Luna. Ma avevo già iniziato nel 1954 con Ingrid Bergman per la regia di Rossellini con cui feci Santa Giovanna al Teatro San Carlo. Ho collaborato con la cantante Caterina Valente, Sandra Milo per il film La visita, poi con Luca De Filippo, Gigi Proietti, ho fatto il costume del personaggio Luisella nella Miseria e Nobiltà con Totò». Sulle mensole di uno stanzino, dormono i bottoni del secolo scorso, dal 1905 in poi: la storia d’Italia tra le asole. La giornata è fredda, fuori il cielo è coperto. Iniziano le telefonate tra interviste in televisione e carta stampata. La notizia della cacciata da Palazzo Sant’Eligio ha deflagrato, l’onda massmediatica è arrivata, come se emergesse solo adesso la storia di Canzanella. «Qui hanno sfrattato tutti – dice – Mi sono messo paura e ho lanciato l’allarme. Ora Regione e Comune stanno dialogando, la notizia è filtrata e aspettiamo».

Ma qual è la storia di questo artigiano d’élite? Classe 1939, nato da madre beneventana e padre napoletano, quest’ultimo morto nel 1953. Sette figli rimasti orfani e costretti a cavarsela da soli. «Sono nato a Benevento, lì vivevo con i nonni che avevano una salumeria. Era una Napoli diversa, a quell’epoca. Mi ricordo il bombardamento, ero piccolo, ma sono rimasti impressi quei palazzi rotti, la povertà. Ero molto legato a mia nonna Matilde Lombardi, mio nonno invece aveva una “posta” che faceva Napoli-Benevento e trasportava la roba. C’era gente che aveva fame. Li comprendevo e gli davo pasta e pane di nascosto dal nonno. I miei genitori erano rimasti a Napoli, mal conciati, erano anni di guerra, mio padre fu cacciato dalle Ferrovie dello Stato perché non voleva essere fascista».

Sono tempi di quando la pasta non era ancora adagiata nelle confezioni di plastica, ma infilata nei sacchi come i fagioli, con gli ziti lunghi e non spezzati, messi a braccetto con i bucatini per il ragù della domenica. Il giovane Vincenzo giunge definitivamente a Napoli nel 1951, ricongiungendosi con i genitori. Cambiano più volte casa. Bagnoli, Petraio, vico San Nicola da Tolentino dove si è sparsa la notizia di un “munaciello” che lega i capelli ai letti di ottone, quindi Cavalleggeri Aosta. Gli incubi della guerra fanno fatica a dissolversi. Quelle urla sotto le macerie e le bombe, Enzo Canzanella se le ricorda ancora, e mentre racconta chiude gli occhi qualche istante, sembra quasi sentire i tuoni dei palazzi. E poi la malattia del padre, strascicata dai tempi in cui era stato in Africa durante la leva militare. «Andavo all’Istituto d’Arte Palizzi in piazza Plebiscito. C’era un altro ragazzo con me che cercava lavoro e fece domanda all’Alfasud di Pomigliano d’Arco. Ma stavamo nella miseria, pesavo 43 chili. Quando feci la visita militare mi trovarono ram (ridotta attitudine militare, ndr). A quei tempi c’erano i cosiddetti mosconi che aveva creato Matilde Serao, ovvero i “cercasi lavoro”; uno di questi prevedeva una fatica presso la sartoria in piazza dei Martiri di proprietà di Maria Consiglio Picone. Quella bottega si chiamava “Maria Consiglio Fashion”. Era il 1954. Mi cambiò la vita». È la svolta.

La magrezza di Vincenzo era tale che all’inizio non fu creduto idoneo al mestiere, ma la Picone volle metterlo alla prova. Ci è rimasto fino al 1975. Unica sartoria d’alta moda e per lo spettacolo, a Napoli. Canzanella dà avvio a una gavetta che ha del sensazionale, fino a diventare una sorta di socio alla pari della proprietaria. Positano, i lavori per Franco Zeffirelli, i costumi per le commedie più importanti di Eduardo, l’invenzione nel 1946 di “moda Positano” architettata dalla stessa Picone. Le mangiate nella villa di Achille Lauro, gli incontri con Giuseppe Di Stefano, la principessa de Vera, la marchesa Piromallo Capece Piscicelli di Montebello, la principessa Caracciolo di Melissano. «Vestivamo tutti – continua – all’albergo Excelsior, venne il re dell’Arabia Saudita con le sue mogli.  E lo Scià di Persia con Soraya. Un mondo che non esiste più. Non c’erano elettrodomestici e accessori di adesso. La prima televisione me la comprò Maria Consiglio e a casa mia iniziò a venire un mare di gente, per vedere gli sceneggiati. Sono uscito dalla miseria ma sono stato sempre con i piedi per terra. Mangiavamo tutti assieme, anche sul pavimento, alle due di notte. Nel 1975 mi metto in proprio. Chiamai la mia sartoria C.T.N. 75 perché era quello l’anno e il palazzo era al numero 75. Mi avviai con uno spettacolo a Roma al teatro Manzoni. Poi i costumi per Leopoldo Mastelloni. I lavori con Delia Scala e Giulietta Masina, Don Lurio, Mina, Sandra Mondaini, Marcello Mastroianni per il film Maccheroni con Jack Lemmon. E naturalmente, Eduardo il cui sodalizio cominciò nel 1953. Andavamo a mangiare al ristorante insieme, pagava sempre lui. Abbiamo vestito le sue opere maggiori».

Si potrebbe andare avanti per ore, e non sai se sono più i nomi o i tessuti impiramidati fino al soffitto del magazzino. Nello stanzone, ricavato nell’ala dirimpetto all’edificio, trovi di tutto. Frac in stile Ottocento, broccati, velluti pesanti, arabeschi, mantelle, vestiti di servitù, i cartellini con nome, personaggio e titolo della commedia, i bauli enormi di Eduardo pieni di borchie e lucchetti, smoking, tight, trench, divise, costumi romani, calzari, scudi, guanti, collarini borsette, gorgiere, copricapi con piumaggi e colori sgargianti. Tutta questa Storia rischia di sparire. «Fecero una commissione al Comune – spiega Canzanella – Mi hanno collocato qui. Poi mi hanno dato l’abusivismo, come se mi fossi infilato. Ora sto cercando uno spazio che possa contenere il museo. Qui a Sant’Eligio siamo isolati. La sartoria ho dovuto spostarla a via Casciari al Pendino dove sta mio figlio con il laboratorio. Chiediamo di salvaguardare questo patrimonio. Non ci hanno dato una soluzione. Chiediamo locali che voglio pagare». Un colpo di spugna potrebbe cancellare il racconto di chi vestì Maria Callas e si sentì raccomandare “Vincenzo, fammi magra”. Vincenzo Canzanella riuscì nell’impresa di rendere felice la sensibile e disperata artista greca. C’è qualcuno, adesso, disposto a regalare un sorriso a lui?

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