Berlinale 2021, giorno 4. In Concorso arriva il bellissimo iraniano ‘Ballad of a White cow’
Cominciamo l’analisi odierna con una premessa: dopo quattro giorni di visioni e il passaggio di undici titoli su quindici, viene da fare i complimenti al Direttore Artistico Carlo Chatrian e alla sua squadra di selezionatori. Infatti, in un periodo così particolare, con quasi tutti i set fermi un po’ ovunque, produzioni rimandate, alcuni film importanti già passati alla Mostra di Venezia e altri opzionati da Cannes, non era davvero facile mettere insieme un Concorso con i pochi titoli rimasti. Eppure, la giornata di oggi ha confermato la presenza in gara di titoli degnissimi, con qualche caduta verso il basso ma con più di un’opera di ottimo livello. Stamattina era la volta del giapponese Ryūsuke Hamaguchi e del suo Wheel of Fortune and Fanstasy, e dell’iraniano Ballad of a White Cow, diretto a quattro mani da Behtash Sanaeeha e Maryam Moghaddam, al loro secondo lungometraggio insieme (Saneeha è autore anche, in solitaria, di Risk of Acid Rain).
Hamaguchi firma un’opera lieve e interessante, divisa in tre episodi, con al centro alcuni personaggi femminili. Si parte con un triangolo amoroso, che rischia di minare il rapporto tra due amiche del cuore, e si finisce con insolito incontro tra due donne che credono di essere ex-compagne di scuola per poi rendersi che c’è stato un terribile equivoco, passando per la descrizione del rapporto tra una studentessa e un suo ex-professore, divenuto nel frattempo anche romanziere. Non tutt’e tre le storie hanno la medesima potenza: in particolare, la seconda risulta un po’ greve e prolissa a differenza dell’ultima, veramente splendida, probabilmente uno dei momenti più alti dell’intero Concorso. Essa mette in scena due persone che, pur senza essersi mai viste prima, sono capaci di aiutarsi vicendevolmente a superare alcuni traumi e alcuni nodi irrisolti del rispettivo passato.
Se Wheel of Fortune and Fanstasy è un film godibile e non privo di intelligenza, la vetta della giornata è costituita dall’ennesimo eccellente dramma morale proveniente dalle terre persiane. Il cinema iraniano, infatti, continua a sfornare opere densissime, che mettono in scena personaggi dilaniati da scelte difficili, costretti a fare i conti non solo con la propria situazione personale ma anche con una società patriarcale ingiusta e corrotta, che mette a dura prova coloro che tentano di comportarsi con probità. Oltre all’inevitabile riferimento a registi come Asghar Farhadi e Jafar Pamahi, i più conosciuti e premiati a livello internazionale, vale senz’altro la pena di ricordare opere come Il Dubbio di Vahid Jalilvand, Melbourne di Nima Javidi, Drum di Keywan Karimi, e le opere di Mohammad Rasoulof, autore di otto lungometraggi, con l’ultimo dei quali, There is No Evil si è aggiudicato l’Orso d’oro proprio l’anno scorso. Su alcuni di questi uomini pesano sulla testa pesanti condanne ed essi sono vittime dell’occhiuta censura delle autorità iraniane.
Ballad of a White Cow, il cui titolo prende spunto da un passo del Corano che vede protagonista Mosè, ruota intorno a Mina (cui presta il volto la stessa Maryam Moghaddam), la cui vita viene sconvolta quando suo marito viene condannato a morte e giustiziato. Si scopre poi che egli era in realtà innocente. Il passo del libro sacro dell’Islam fa dunque riferimento alla punizione di un innocente. Le autorità offrono alla donna, che intanto deve crescere la figlia sordomuta Bita, le proprie scuse e un piccolo risarcimento economico. Mina vorrebbe maggiore giustizia e la punizione per i giudici che hanno indirettamente causato la morte di suo marito. Un giorno, bussa alla sua porta Reza, che afferma di essere un amico di suo marito cui doveva una grossa somma di denaro ma che in realtà nasconde un segreto.
Come spesso avviene per i film ambientati nel Paese degli ayatollah, Ballad of a White Cow utilizza una drammatica vicenda personale per raccontare la lunga agonia di un popolo che deve combattere per avere giustizia in una terra dove i cittadini sono vittime della burocrazia e di una società opprimente e priva di uguaglianza, soprattutto nei confronti delle donne. Oltre che con i suoi fantasmi interiori e con il suo dolore, Mina deve infatti fronteggiare i parenti del marito che vogliono sottrarre la potestà di Bita, subire le umiliazioni delle agenzie immobiliari che rifiutano di affittare appartamenti per donne single o vedove, lottare contro l’indifferenza dei tribunali che scoraggiano la sua richiesta di giustizia, difendersi dall’ipocrisia dei tenutari che non tollerano che altri uomini entrino in casa da lei. Sullo sfondo, la questione politica che mostra la persistenza nel Paese della pena di morte (che un giudice, in una battuta memorabile e agghiacciante, definisce come “uno dei diritti umani“), la repressione del dissenso quando alcuni lavoratori in sciopero sono arrestati o licenziati. D’altronde, la sceneggiatura è estremamente ricca di belle invenzioni, una su tutte la scelta di rendere Bita una piccola cinefila, capace di supplire al silenzio ovattato del mondo che la circonda con la passione per il cinema.
Con una struttura che ricorda quella di una palla di neve che rotola giù per un pendio e si ingrossa man mano che viene giù, Ballad of a White Cow racconta il modo in cui la morte di un innocente scatena una serie di eventi tragici, tutti direttamente o indirettamente collegati a quell’ingiustizia iniziale, che sconvolgono la vita delle persone in gioco. La ricerca di giustizia diventa anche il ponte che può collegare due vite, come nel caso di Reza e Mina, sebbene la drammaticità delle questioni in gioco rischi di rendere impossibile qualsiasi possibilità di riscatto, di negare ogni tentativo di redenzione. Nel film viene, inoltre, mostrato l’enorme contrasto tra la modernità presente in una città fortemente industrializzata come Teheran e un sistema legale fondato sulla Sharìa, in cui lo Stato fa valere una delle regole dell’Antico Testamento, quella dove conta la massima “occhio per occhio, dente per dente”, considerata la migliore risposta per combattere la delinquenza. Non sappiamo se Saneeha e Moghaddam riusciranno a bissare la vittoria ottenuta l’anno scorso da Rasoulof (che, peraltro, siede quest’anno in Giuria) ma l’auspicio è che il palmarès tenga in considerazione un’opera che, ancora una volta, coinvolge e inquieta lo spettatore lanciando l’ennesimo sasso nello stagno nella sua lucida e coraggiosa denuncia.
©RIPRODUZIONE RISERVATA – Ne è consentita esclusivamente una riproduzione parziale con citazione della fonte, Milena Edizioni o www.rivistamilena.it