Berlinale 2021, giorno 5. Trionfo meritato per Radu Jude che vince l’Orso d’oro
E che vinca il migliore! Si dice spesso così, a ogni competizione: dalla corsa dei sacchi a un incontro di calcio, da un torneo agonistico in cui partecipano professionisti a uno amatoriale. Lo stesso vale senz’altro per i premi cinematografici, non sempre dati con cognizione di causa, sebbene bisogna riconoscere che nel cinema, come in ogni arte, è difficile stabilire criteri oggettivi o canoni estetici indiscutibili. Partendo da questo assunto, ciascuno può poi snocciolare le proprie preferenze, e la nostra andava tutta per Radu Jude e il suo Bad Luck Banging or Loony Porn che avevamo recensito qualche giorno fa. Questa meritata vittoria segna la definitiva consacrazione per un autore che a Berlino aveva già vinto l’Orso d’argento per la regia qualche anno fa con Aferim! e il cui I Do Not Care if We Go Down in History as Barbarians si era aggiudicato il massimo premio al Festival di Karlovy Vary.
Si tratta della terza volta in nove anni che il massimo premio della Berlinale finisce in Romania, dimostrando l’ottimo stato di salute di una delle cinematografie migliori d’Europa, e forse del mondo. Il successo di Jude va infatti ad aggiungersi a quelli di Călin Peter Netzer per il bellissimo Il caso Kerenes (2013) e di Adina Pintilie per il più problematico Ognuno ha diritto ad amare – Touch me not, trionfatore nel 2018. Bad Luck Banging or Loony Porn è un’opera irriverente e lucidissima, che ha la sfrontatezza di mostrare, nei minuti iniziali, un video porno integrale e senza censura, utilizzandolo come randello per fustigare il moralismo e la falsa coscienza borghese. Non a caso, tra i tanti riferimenti filosofici, politici e letterari del film figurano Walter Benjamin, Bertolt Brecht e Jean-Paul Sartre.
Andando agli altri premi, l’Orso d’argento Gran Premio della Giuria è andato a Wheel of Fortune and Fantasy del giapponese Ryūsuke Hamaguchi, film in tre episodi non tutti della medesima forza ma con un’ultima parte bellissima, che ne fanno comunque l’opera migliore di questo autore un po’ discontinuo. Sul podio va anche Mr Bachmann and His Class, fluviale documentario di Maria Speth, uno dei quattro tedeschi del Concorso, che racconta i grandi successi ottenuti dal professor Dieter Bachmann nell’insegnamento a ragazzi di 12-14 anni, figli di immigrati, nella città di Stadtallendorf. Si tratta di ragazzi provenienti da nazioni differenti, alcuni dei quali mostrano difficoltà persino nel padroneggiare la lingua tedesca.
Abbastanza discutibile il Premio per la Regia al modesto ungherese Natural Light di Dénes Nagy, film di guerra che mostra un plotone di soldati ungheresi, di stanza in Unione Sovietica, che vanno alla caccia di partigiani e occupano un villaggio, bruciandone vivi gli abitanti, stipati dentro un granaio. A parte l’intuizione visiva di un monocolore, in cui le facce sporche di terra dei soldati sembrano mescolarsi con i colori della palude e della foresta in cui si svolge buona parte dell’azione, il film risulta prolisso, tedioso e anche moralmente problematico, nella maniera in cui descrive l’azione dei personaggi, quasi a smorzare la gravità dei loro crimini.
Per quanto concerne il reparto attoriale, segnaliamo l’abolizione dei premi al “migliore attore” e “migliore attrice”, sostituiti da quello al “migliore interprete” che va alla tedesca Maren Eggert per il modesto I’m Your Man di Maria Schrader mentre interessante è il premio per “miglior interprete in un ruolo di supporto” che va alla giovanissima Lilla Kizlinger, che compare nella bellissima scena iniziale di Forest – I See You Everywhere, inquietante ritratto corale del male di vivere, soprattutto all’interno dei contesti affettivi e familiari, diretto dall’ungherese Bence Fliegauf. Abbastanza generosi, infine, il premio per la sceneggiatura per Introduction di Hong Sangsoo e quello per il Miglior Contributo artistico al poco convincente A Cop Movie di Alonso Ruizpalacios, non sempre a fuoco nel mescolare finzione e documentario nel suo racconto di una coppia di poliziotti messicani. Tra gli sconfitti avrebbero meritato miglior sorte il bellissimo Petite Maman di Céline Sciamma, e l’iraniano Ballad of a White Cow di Behtash Sanaeeha e Maryam Moghaddam, cui ha forse nuociuto la vittoria del conterraneo Rasoulof l’anno scorso. Tornano a casa a mani vuote anche l’interessante georgiano What Do We See When We Look at the Sky? di Alexander Koberidze, e l’appassionato Memory Box dei libanesi Joana Hadjithomas e Khalil Joreige.
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