Watchmen, ovvero. la potenza di un “invece” – parte prima

Dai teaser di assaggio al cruciale momento della prima messa in onda, ogni riduzione televisiva di un romanzo o una graphic novel di culto deve portare il carico di pesanti aspettative, divise tra la speranza di non essere delusi e la sfiducia verso l’inevitabile banalizzazione commerciale. Nel caso di Watchmen il grande, complesso romanzo a fumetti di Alan Moore e Dave Gibbons aveva già offerto il suo tributo al tritacarne hollywoodiano con l’onesta (e modesta) trasposizione cinematografica di Zack Snyder. L’omonimo film del 2009 si presenta infatti con un impaginato che non stravolge la sua fonte com’è avvenuto col pessimo adattamento della League of extraordinary gentlemen del 2003, ma ricalca le linee e metafore dell’originale con una riscrittura piatta che riduce il tutto a un dramma di marionette con poco spessore e umanità. Dato quindi per scontato quanto sia arduo riscrivere per lo schermo il genere supereroico liberandosi dal suo ingombrante aspetto carnascialesco, era lecito pensare che serializzare Watchmen avrebbe prodotto un parente povero delle precedenti incarnazioni, non fosse dovuto ad altro che al suo stesso rimasticare temi già affrontati (e per giunta con un certo affanno).

L’operazione orchestrata da Damon Lindelof coprodotta dalla DC Entertainment e soci per la rete HBO, invece spazza via del tutto ogni diffidenza sparigliando il gioco in maniera intelligente e coerente al mondo distopico raccontato da Moore. A partire dall’ambientazione spostata di 30 anni in avanti rispetto ai drammatici eventi della graphic novel, Lindelof muove i suoi pezzi con delle situazioni che prendono il largo dal Watchmen originale portando la miniserie su un terreno autonomo, pur mantenendo dei forti rimandi narrativi che tengono in stretta relazione le due parti. La magia funziona sviluppando il plot su un nodo drammatico tristemente di attualità, ossia il conflitto razziale che ha incendiato le strade americane prima dell’attuale pandemia. La strage di Tulsa del ’25 che ha visto una cittadina intera di colore trucidata da fanatici del KKK, è l’episodio storico che fa da liquido di coltura in cui cresceranno in parallelo gli embrioni di storie destinate a scontrarsi/risolversi nella catarsi finale.

L’esilio di Ozymandias in una grottesca dimensione dominata dal suo ego smisurato, la presenza di vecchi e nuovi personaggi come Hooded Justice e Sister Midnight, la trasformazione del vigilante Rorschach nel simbolo ispiratore di un movimento razzista e reazionario, sono solo alcuni aspetti di questo ricco mélange d’ingredienti. Prima di addentrarci nelle more più specifiche del serial, però, occorre un passo indietro per mettere a fuoco meglio la parola d’ordine che sta dietro alla attuale visione del mondo supereroistico, si parlerà perciò di “destrutturazione”.

A gettare il primo sasso nello stagno era stata la famosa ricetta “Super-eroi con super-problemi”, con cui negli anni ’60 l’editor-in-chief della Marvel, Stan Lee, trasportava la dimensione tribolata della realtà nel mondo giocattoloso degli eroi in calzamaglia. Pubblicamente, Spiderman, Devil e compagni, inseguivano tra una battuta e l’altra, uomini-lucertola, alieni e rapinatori dai trampoli smisurati tra i grattacieli di Manhattan. Allo stesso tempo, sul lato privato dei loro alter ego, si dannavano con l’affitto di casa, la disoccupazione o l’influenza stagionale come tutti. E, in termini di scontro, non si ancora quale fosse il più aspro.

Svelare la quotidianità del mito lo arricchiva di un inedito lato umano, amplificato e studiato ad arte per creare maggiore empatia col pubblico. L’aura leggendaria dell’eroe contaminata così dalle debolezze della parte fallibile, entrava in un area diversa della percezione, quella che asseconda la nostra necessità di proiettarci in figure superiori mitizzando persone comuni coinvolte in atti esemplari di coraggio o di giustizia.
Trasformare il campione in una sorta di bonario, rassicurante vicino di casa (vedi Spiderman) non ne andava a intaccare comunque l’integrità morale. In questo senso, l’appellativo “eroe” continuava a fungere da garanzia per i lettori sulle inclinazioni rivolte al “bene” del proprio beniamino. I tempi e i gusti, però, cambiano, soprattutto in una società irrequieta e agitata da venti di protesta come l’America degli anni ’70.
All’affermarsi di un cinema che prendeva le distanze dagli standard Hollywoodiani con generi e contenuti nuovi (pensiamo a film-culto come Easy Rider, o Fragole e sangue, etc.), il fumetto non era da meno adeguandosi a ridisegnare i propri modelli, fino a correggerli con derive aggressive del tutto inedite e posizioni politiche meno ligie ai dettami dell’American Dream.

Di certo ai lettori della DC comics non sarà mancata più di una vertigine di smarrimento leggendo le avventure  di Batman nella versione di Denny ‘O Neil e Neil Adams, interpretazione decisamente più cupa e violenta dell’arlecchinesco cosplay di Bob Kane Bill Fingers. La ferita aperta dell’intervento nel Vietnam, la percezione di precarietà di un ordine mondiale tenuto in equilibrio dalla corsa agli armamenti, i conflitti sociali, non potevano lasciare inalterati i simboli positivi di generazioni di lettori. I semidei restavano ancora tali senza nascondere più come una volta gli aloni e le toppe delle uniformi immacolate.
Insomma, cum grano salis, si scrollava il ramo senza tirare giù l’intero albero.

Ma non sarebbe stato sempre così, il mutamento in atto era ben lontano dal trovare stabilità, anzi, come vedremo nel prossimo articolo, il trattino che separa le parole “super” ed “eroe sarebbe cresciuto e cresciuto a dismisura.

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