‘Aqualung’ dei Jethro Tull, cinquant’anni di un capolavoro tra Dickens e la pandemia

È il 1971, per l’esattezza il 19 marzo, e i Jethro Tull escono con Aqualung, il loro quarto album. Il progressive è la declinazione privilegiata del rock negli anni in cui la parola “rivoluzione” coniuga un verbo dolce e sognante nella musica e sanguinante e tagliente per le strade. Il 1971 è l’anno in cui i Pink Floyd registrano Pink Floyd: Live at Pompeii, il concerto che a porte chiuse inaugura la parola distaccata e universale di Roger Waters e di una lunga stagione di una band che parlerà al mondo e a se stessa, fino a un confino, suggellato in The Wall, che è reclusione e liberazione al tempo stesso.

Il 1971 è l’anno in cui Nixon decreta l’impossibilità di convertire il dollaro in oro, mettendo fine ai patti di Bretton Woods, in un’annata in cui spingono le tensioni arabe e, sparsi qua e là per i continenti, gli atti di violenza integrano una pedagogia politica che educa il mondo a un nuovo mondo. Il 1971 è anche l’anno in cui gli inglesi aumentano i contingenti in Irlanda del Nord. Una predicazione dell’unità che la corona impone a tutto l’intorno britannico. E Ian Anderson, fondatore dei Jethro Tull, da buon scozzese, ne sa qualcosa.

Uscire in quegli anni con un’opera musicale di rock progressivo è rischioso, al contrario di quanto si possa pensare considerando l’allineamento di molti gruppi a quella tendenza. I Jethro Tull il rischio decidono di correrlo con un album dai contenuti complessi e spigolosi. Non tanto per la musica, che sarebbe superfluo valutare di grande qualità, quanto, soprattutto, per l’ambiguità letteraria dei testi.

Un poema di versi inversi, dove i significati richiamano valori altissimi e istanze civili delicate, correndo sui binari di un protagonista reietto, un figuro che nel dipinto della copertina richiama i connotati di Anderson, che sembra uscito da un registro a metà tra Dickens e Brecht. Un mendicante che non è il travestimento di Ulisse, ma è la spocchia miserabile degli occhi che odiano la realtà e chiunque la popoli. È il nuovo sguardo che all’orizzonte mostra le sopracciglia e le palpebre, cinquant’anni prima che qualche decennio di maturazione del ventunesimo secolo riveli la natura corrotta e superficiale di un’epoca votata a un individualismo sterile e fine a se stesso. Aqualung anticipa e traduce in prog concept la deriva decadente e desolante del lato oscuro del decadentismo postmoderno.

Feeling alone
the army’s up the road
salvation à la mode and a cup of tea.

Sentendosi solo
l’esercito della salvezza è in fondo alla strada
salvezza modè e una tazza di tè

Aqualung descrive la vita di un senzatetto, che si sospetta sia pedofilo (“Sitting on a park bench eyeing little girls with bad intent”. – Seduto su una panchina nel parco osservando delle ragazzine con cattive intenzioni), riluttante a ogni relazione col prossimo; il personaggio Aqualung è rappresentato attraverso dettagli che non ne risparmiano una raffigurazione da reietto, la cui fisiognomica interpreta la perdita dei valori di un uomo che, avendo smarrito ogni sentiero che conduca al bene, non conosce altra reazione se non quella di odiare chiunque gli passi accanto.

Snot running down his nose
greasy fingers smearing shabby clothes.
Drying in the cold sun
watching as the frilly panties run.

Un moccio cola dal suo naso
dita unte imbrattano vestiti logori.
Asciugandosi con un sole che non scalda
mentre guarda le mutandine di pizzo che corrono

La voce e il flauto traverso di Ian Anderson, la batteria di Clive Bunker, il basso di Jeffrey Hammond (anche lui, a volte, al flauto dolce) e la chitarra di Martin Barre accordano ai versi dei brani di Aqualung una musica arrangiata senza cedere alla malinconia componendo, così, un concept rabbioso e incalzante accompagnato da meditazioni di fondo che lo sviluppano come un grande racconto della letteratura tipica di quel “romanzo sociale” di cui Charles Dickens è stato grande interprete nella narrativa inglese dell’Ottocento. L’Aqualung di Ian Anderson si veste degli stracci parlanti di quell’estetica della miseria che può essere ricercata nel teatro di Bertolt Brecht e Samuel Beckett.

L’epopea nera di Aqualung è, soprattutto a distanza di mezzo secolo, il manifesto di una lettura a distanza di un’epoca sedimentatasi molti decenni prima della sua manifestazione. Il titolo Aqualung fu scelto da Anderson dal nome di un particolare tipo di respiratore, sviluppato da Jacques Cousteau e Emile Gagnan nel 1943, che riproduce un rumore assimilabile al rantolo roco del protagonista dell’album. Il respiro di Aqualung, infatti, a un certo punto viene paragonato a quello di un sommozzatore. Il rantolio di Aqualung si origina dal gelo dell’inverno (“december’s foggy freeze”), fino alla fioritura di una primavera che in questo dominio di disincanto e di afflizione risuona come un atto di follia.

“and the flowers bloom like
madness in the spring”

I cinquant’anni di Aqualung ricorrono durante una pandemia che in molte parti del mondo è iniziata in primavera e, ancora in primavera, non sembra voler smettere. E lo fa col fiato corto e precario soccorso dai respiratori. Non sarebbe sbagliato tendere l’orecchio alla musica e al genio letterario, ogni tanto. Perché capita che entrambi abbiano già teso l’orecchio agli eventi prima che qualcosa li riveli definitivamente. Resterebbe da capire quali siano le musiche e le parole giuste. È primavera perché sbocciano i fiori o i fiori sbocciano perché è primavera? Tuttavia, non domandatelo ad Aqualung.

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