‘Sto pensando di finirla qui’, il nuovo viaggio di Charlie Kaufman nella psiche umana
“A volte un pensiero è più importante di un’azione”, è una delle prime frasi che ascoltiamo durante il lungo dialogo ambientato in auto che copre il segmento iniziale di Sto pensando di finirla qui. A pronunciarla è la protagonista (fittizia) di questo terzo lungometraggio da regista di Charlie Kaufman, autore di alcuni degli script più originali, famosi e inventivi che hanno scandito il nuovo millennio cinematografico, da Essere John Malkovich e Il ladro di orchidee, diretti dall’amico e sodale Spike Jonze, a Confessioni di una mente pericolosa, uno dei migliori esiti di George Clooney dietro la macchina da presa, oltre naturalmente alla sceneggiatura oscarizzata dell’epocale Se mi lasci ti cancello di Michel Gondry. Sto pensando di finirla qui è il nuovo, esemplare film-cervello, e probabilmente anche il suo migliore, partorito dalla mente del talentuoso sceneggiatore newyorchese, che però questa volta sceglie la via esplicitamente derivativa, e adatta per lo schermo un romanzo recente, l’esordio del canadese Iain Reid, anziché vergare un testo di suo pugno. A rendere possibile il progetto è Netflix, che interviene in soccorso di un autore che non sempre trova le porte spalancate in una Hollywood sempre più conformista e politicamente corretta.
Il pensare al posto dell’agire, dunque. O. magari, l’agire semplicemente attraverso il pensiero, quasi esso fosse un’entità staccata dal corpo di colui che ha provveduto a generare quel pensiero. Una vita immaginata e sognata, mai esistita, tutta chiusa dentro la mente di un uomo che, prossimo alla morte, prova a esplorare, rifugiandosi nell’immaginazione, le infinite possibilità che sarebbero scaturite se l’azione avesse prevalso sull’indolenza e l’inanità, se il coraggio avesse preso il posto della paura, se la fiducia in sé stesso fosse stata capace di scardinare o far tacere il timore dell’inconcludenza. Come un ventriloquo che presta la sua voce a un pupazzo facendogli esprimere i suoi pensieri, Jake il protagonista (vero) di Sto pensando di finirla qui si incarna in una sorta di alter-ego femminile con il quale fantastica di condividere un sentimento amoroso e al quale dà in prestito parte della sua inespressa vivacità intellettuale.
Fedele all’indagine messa a punto nei suoi film da sceneggiatore, Kaufman riduce ai minimi termini gli assunti già presenti nell’ambiziosissimo ed eccessivo Synecdoche, New York (2008), suo esordio registico, e lavora nuovamente sui temi a lui cari dell’identità e della memoria, costringendo ancora una volta lo spettatore a insinuarsi nei labirinti della mente del personaggio messo in scena e a inseguire i suoi fantasmi. Ne viene fuori un percorso che segue un lungo flusso di coscienza attraversando una scia di tristezza nera e desolazione interiore, di rimpianti e paranoie, e si risolve in una panoramica sulle delusioni e le occasioni mancate nel corso di una vita in cui si sono ricevuti solo premi di consolazione. “Il mondo è più grande della tua testa” – sentiamo dire da Jake, mentre si trova al volante dopo aver lasciato la casa dei genitori, e questa testa non è altro che un enorme guazzabuglio, come direbbe Alessandro Manzoni parlando del cuore umano, un (non)luogo in cui si accumulano e si mescolano, senza soluzione di continuità, la fantasia, il sogno, il desiderio, le cose amate, quelle mai avute e quelle perdute.
Di cosa parla dunque, in definitiva, Sto pensando di finirla qui? Come buona parte dei testi postmoderni, il fulcro sembra essere la negazione dell’oggettività e tutto ciò che essa si porta dietro: l’impossibilità di decifrare una realtà che si presenta mutevole e inafferrabile, la frantumazione dell’Io, la consapevolezza che l’identità e l’individuo sono fortemente condizionati da supremazie economiche e culturali. Per questa ragione, l’estenuante quanto avvincente scambio di battute che si svolge in auto tra Jack e “la ragazza” non può fare a meno di incrociare le analisi di Guy Debord con l’ormai classico La società dello spettacolo, e di far entrare in partita anche David Foster Wallace, tra i massimi esponenti del postmodernismo in letteratura, di cui nel film si ricordano i saggi contenuti in Una cosa divertente che non farò mai più ma che, come viene ricordato amaramente, è famoso più per la circostanza del suo suicidio che per le sue opere. Infine, si cita anche l’eminente Ralph Waldo Emerson e la sua idea secondo cui gli uomini si accontentano di una vita fatta di passioni false e del compimento di atti privi di vera volontà ma quasi sempre, in un modo o nell’altro, eterodiretti.
Sto pensando di finirla qui è un racconto disseminato di false piste, a partire dall’io narrante, di personaggi fittizi che, costituendo una serie di possibilità inesplorate, possono assumere più nomi e identità, fare lavori diversi e viaggiare avanti e indietro nel tempo, apparire e scomparire all’interno di uno spazio. Per questo, la ragazza di Jake può chiamarsi “Lucy”, come la protagonista dei Lucy Poems di William Wordsworth, poeta romantico, straordinario cantore dei temi della fanciullezza e dei ricordi, la cui opera campeggia tra i volumi presenti nella camera di Jake e del quale nel film si richiama non casualmente la Ode: intuizioni di immortalità nei ricordi dell’infanzia. Oppure ella può assumere, in sostituzione, i nomi Lucia, Louisa, Yvonne o Ames senza che siano necessarie troppe spiegazioni. Poiché, in fin dei conti, è solo un ricordo, nient’altro che una delle tante possibilità inesplorate di un’esistenza ormai giunta al capolinea, piena di occasioni mancate o di sconfitte, “Lucy”, nella mente di chi l’ha “inventata”, può passare disinvoltamente dall’essere un’esperta di anatomia, impegnata a studiare il ganglio di Gasser, o mostrarsi come una fotografa di paesaggi; può essere una gerontologa o persino una cameriera, una raffinatissima poetessa (la sentiamo recitare la struggente “Bonedog”, lirica dell’esordiente Eva H.D., contenuta nella raccolta Rotten Perfect Mouth) o una severa critica cinematografica. In uno dei suoi più gustosi scambi verbali con Jake, la vediamo infatti assumere le sembianze di Pauline Kael (storica firma del “New Yorker”, famosa per alcune sue stroncature e il cui volume, For Keeps, fa parte anche’esso della biblioteca di Jake) e fare a pezzi un capolavoro come Una moglie di John Cassavetes stroncando la performance di Gena Rowlands, accusata di “fare troppo” o, come si dice in gergo, di andare in overacting.
Con questo suo ultimo esito artistico per il cinema, Kaufman (che ha recentemente esordito anche nella letteratura con il romanzo Antkind) realizza una gemma, un vero e proprio capolavoro in cui, nonostante l’affastellamento di una miriade di elementi, che rischiano di suscitare una sorta di asfissia narrativa, lo spettatore viene ricompensato dalla straordinaria ricchezza degli elementi in gioco, a partire dalle riflessioni esistenziali e da quelle filosofiche sullo scorrere del tempo, quasi sempre intrise di amarezza, per arrivare al vasto ed eterogeneo campionario di generi e di toni messi in campo dall’autore. Si passa infatti dal dramma alla commedia grottesca, dalle atmosfere thriller, con il cliché della cantina come luogo in cui sono stipati e nascosti gli orrori, a inserti di animazione, visibili attraverso il medium televisivo (procedimento già utilizzato in Synecdoche, New York) o inseriti direttamente nella narrazione, come avviene nel sorprendente finale, nel quale c’è spazio anche per un momento musical tratto da Oklahoma! di Richard Rodgers e Oscar Hammerstein.
Sto pensando di finirla qui è insomma, come sempre in Kaufman, uno stimolante e memorabile tour de force intellettuale che inquieta, spiazza, interroga, e che sembra invitare a sbarazzarsi delle illusioni e delle piccole menzogne consolatorie che raccontiamo a noi stessi, come confessa il suo Jake, durante un amarissimo e memorabile sfogo, quando gli sentiamo dire “che Dio ha un piano per te; che l’età è solo un numero; che è sempre più buio prima dell’alba; che dietro a ogni nuvola c’è un maledetto raggio di sole; che c’è qualcuno per tutti noi e che Dio non ti dà più di quanto puoi sopportare”. Difficile, davvero, immaginare qualcosa di altrettanto annichilente.
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