‘Nostalgia della bellezza’ di Angelo Crespi, la pittura tra tradizione e mercato

di Eliana Petrizzi

Nostalgia della bellezza è il titolo del nuovo libro di Angelo Crespi (edito da Giubilei Regnani), che reca il sottotitolo: Perché l’arte contemporanea ama il brutto e il mercato ci specula sopra. Si può essere d’accordo o meno con il taglio radente che Crespi dà della questione, ma vale sempre la pena ricordare che se, da un lato, è lecito rispettare il diritto d’espressione degli artisti contemporanei, dall’altro è altrettanto consentito al critico come allo spettatore di prendere le distanze da tutto quanto non procura alcun tipo di piacere o di stimolo né estetico né intellettuale. Ho letto quasi tutti i libri di Angelo Crespi, e ogni volta ne ho tratto un ossigeno corroborante per le mie idee sulla pittura. Di Crespi – e il suo ultimo libro non fa che confermare la mia idea – ho sempre amato la profonda cultura, il pensiero tagliente e onesto, il coraggio della parola decisa e sferzante, l’ironia talvolta amara, la lucidità di un’idea argomentata sempre con rigore e coerenza estremi. Crespi è chiaramente un sostenitore delle teorie classiche della bellezza, con buona pace di tutti gli artisti che, come me, esprimono una visione del mondo in cui vivono attraverso un linguaggio – quello della pittura figurativa tradizionale – che da troppi anni è stato bandito dai circuiti del contemporaneo, come se la pittura fosse un cosa e non un come, e cioè innanzitutto un linguaggio mediante cui esprimere il proprio sé nel mondo.

Durante Fiere internazionali, Biennali e Mostre di vario genere viste in giro negli ultimi dieci anni, ho trascritto su un taccuino le impressioni di volta in volta ricevute guardando le opere esposte: violenza e mortificazione della carne, nevrosi sadiche, accozzaglia eteroclita, disperazione, il brutto, l’insensato, il silenzio, la gioia impossibile, la cura inutile. È che io dall’arte mi aspetto ancora trascendenza e speranza, e speranza e trascendenza possono essere date anche attraverso il racconto delle miserie più grevi. E invece troppa arte oggi è fatta di opere sciatte e arroganti, senza più alcuna responsabilità estetica, né metafisica.Nelle sale dei Musei d’arte contemporanea, i muri sono spesso pieni di lunghe scritte esplicative o di video in cui l’artista tenta di motivare il suo lavoro. E infine eccolo il lavoro spiegato, che pochi o nessuno capisce, davanti al quale il visitatore medio si trattiene pochi secondi, ricacciato dal senso di vuoto, di perplessità, di delusione e di sconforto, se non di autentico disgusto. È chiaro che ognuno fa la propria esperienza e che ogni linguaggio merita rispetto, ma è innegabile che l’arte contemporanea sia oggi diventata troppo spesso un affare riservato a curatori vanitosi, galleristi, collezionisti pilotati da ideatori di bluff a tavolino, fondi d’investimento e non meglio precisate operazioni di mercato, dove gli artisti sono ora superstar inarrivabili, ora vittime di un meccanismo da cui vengono sfruttati e presto abbandonati. Alle opere classiche, fatte di grande tecnica e di un senso condiviso della bellezza, sono subentrati linguaggi variegati, che hanno in comune la necessità di cogliere contingenza, novità, caos, dissacrazione e arbitrio come parte fondante del processo creativo. L’opera è ciò che càpita, che accade e che si lascia accadere: magro traguardo di chi, persa ogni capacità di trascendenza, si è ridotto al compiacimento delle proprie tare.

A questo punto giunge l’obiezione più frequente: a partire da Marcel Duchamp, l’artista non è più l’artigiano capace di utilizzare pittura, scultura e disegno, ma demiurgo che con la sola idea decreta opera d’arte la pura esistenza di qualcosa. Di fatto, l’opera oggi è soprattutto un processo mentale. Se però accettiamo che arte sia tutto ciò che gli uomini definiscono tale, dovremo pure abituarci all’idea della grande beffa, ricordando che la parola “arte” condivide l’etimo proprio con “artificio”. Ma l’arte concettuale, se proprio dev’essere, è buona quando l’idea è buona. Dunque mi chiedo: in quante opere d’arte esiste oggi veramente un’idea valida? L’onnipresenza di banalità, cattivo gusto e provocazione gratuita si maschera dietro l’etichetta concettuale, senza la quale in molti casi le opere apparirebbero per quello che sono: bancarotta estetica e intellettuale.

Tutto questo è arte? Un fatto è certo: la sensazione avvilente dinanzi a una cultura che un tempo incoraggiava il senso dell’ideale e della bellezza sublime, e che oggi si riduce con troppa facilità a boutade d’effetto, può essere in parte risolta solo accettando una radicale metamorfosi formale e sociale nella pratica artistica. Si tratta di un processo in cui l’artista è inserito a pieno titolo (nella sua doppia veste di vittima e di carnefice) nel sistema economico, sociale e riflessivo che struttura quello che vediamo e come lo valutiamo. L’invito è forse quello di sfuggire alle responsabilità da sempre richieste a un artista, e cioè di dover prendere la vita e l’arte con serietà, impegno e fatica, perlustrare baratri anche per conto di chi non sa o non vuole, di comunicare messaggi edificanti, di rispondere ai grandi quesiti religiosi e laici dell’esistenza, di elevare lo spettatore verso una trascendenza che salvi dalla frammentarietà disorientante del contingente.

Troppi confini si sono fatti labili: tra arte e artigianato, tra arte e design, tra arte e comunicazione pubblicitaria, tra simbolo e segno. Una buona soluzione sarebbe cercare di fare al meglio le cose sviluppando idee potenti. Ovviamente, a patto di riuscirci. In passato, l’arte godeva di una sua autonomia quasi sacrale, legata soprattutto al pregio tecnico dell’esecuzione da parte dell’artista e della sua bottega. In seguito, la libertà d’espressione ha prevalso sulla tecnica e persino sui contenuti, permettendo sia la creazione di capolavori, che una pletora di abusi e arbitrii. Sembra che oggi la creatività sia un diritto basilare di ciascuno, un po’ come il diritto di voto. Ma questo comporta qualche rischio, molta confusione e pure qualche inaccettabile sconfinamento, sia etico che di elementare buon gusto.

Alle scuole ed alle botteghe di un tempo si sono sostituiti oggi aziende, laboratori, sistemi di potere fondati sul mercato e su dinamiche economiche, che hanno condotto l’arte verso una mercificazione devastante. In nessun’altra epoca come oggi, infatti, il valore coincide con il prezzo, per non dire che il prezzo rappresenta l’intero valore dell’opera. Anziché espressione di una sincera ricerca estetica e/o intellettuale, l’arte è diventata uno strumento finanziario dal quale il sistema cerca di spremere il massimo profitto. L’acquisto dell’opera di un artista affermato finisce così per somigliare a un investimento in Borsa, dove i collezionisti diventano gli speculatori, e il pubblico – sempre più disorientato e deluso – è sottoposto a un sistematico lavaggio del cervello, che tende ad accreditare un’arte troppo spesso banale, cinica e ripetitiva.

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A contrastare questo andazzo demoralizzante c’è l’esercito dei difensori di una tradizione che, come ricorda Crespi nel suo libro, “non vuol dire adorare la cenere, ma conservare il fuoco”. Il dibattito tra sostenitori del contemporaneo e nostalgici del passato è vecchio e duro a risolversi. Certo, la pessima arte è sempre esistita, nel Rinascimento come oggi, a conferma che il problema non è nei linguaggi tecnici utilizzati, ma nelle cose da dire e nelle visioni che si generano. Fondamentalmente, il libro di Angelo Crespi parla di un tema fondamentale: quello della Bellezza. Che cos’è la Bellezza e a cosa serve? Per Angelo Crespi “la bellezza ha uno stretto legame con il sacro, essa ci permette una redenzione laica e dunque anche di perpetuare la tradizione e la civiltà nella certezza che ci sia un fondamento ulteriore, nomos o dio che si voglia, oltre il quale si dispiega solo profanazione e dissacrazione”.

In effetti, il titolo del libro contiene la risposta. Etimologicamente, la parola “nostalgia” contiene i termini greci nostos, che indica il viaggio per far ritorno a casa, e algos, che significa dolore. Insieme, questi due termini stanno a significare il desiderio ora malinconico, ora doloroso di tornare in Patria. La Bellezza di cui parla Crespi è in effetti un’antica dimora collettiva, fatta di familiarità con il sacro e richiami con l’altrove, attraverso il potere salvifico della forma. La bellezza è cioè salvifica nella misura in cui abbatte il disorientamento, il non-senso, la disgregazione, l’assurdo e il nulla che incombono sugli esseri umani. Una bellezza che può essere consolatoria e rasserenatrice (penso alle teorie del pittoresco) oppure tormentata e devastante (penso a quelle del sublime romantico). È una Bellezza, quest’ultima, che affascina e atterrisce, incarnando le esaltanti antinomie di cui è fatta la vita, spingendoci verso forze che in nessun modo siamo in grado di governare, capace di trasformare l’esperienza estetica in esperienza estatica.

L’arte, e la pittura in particolare, nasce dall’inspiegabile bisogno di narrare l’incontro tra la forza, il mistero e la bellezza del mondo e la propria interiorità, in una narrazione inedita che a sua volta produce nuova forza, nuovo mistero e nuova bellezza. Ed è importante, in questo processo, recuperare un legittimo rispetto per la téchne, che indica l’abilità a realizzare qualcosa, totalmente accantonata dai dettami dell’arte concettuale. “Spesso – scrive Crespi – l’artista concettuale pensa una cosa, poi chiama un altro a fabbricarla. (…) Così però nega il momento creativo che non sta nella progettazione ma nella costruzione; ci si nega quella libertà assoluta di fare una cosa mentre la si fa. (…) Questo territorio inesplorato è il regno della possibilità, delle infinite possibilità per cui iniziando il verso non sappiamo dove ci condurrà la rima, tanto che il poeta può arrivare a dire cose che neppure sapeva, come neppure le cose sapevano di essere: è l’aspetto profetico della poesia e dell’arte in generale’. Di fatto – aggiunge ancora l’autore – ell’arte contemporanea, i contemporaneisti amano il fatto male o il fatto da qualcun altro. È quasi incomprensibile questa inversione del senso, direi che è una cosa diabolica. In tutte le altre arti, fuorché nell’arte visiva, amiamo le cose sensate e fatte bene. Dopo le avanguardie che hanno sconvolto i generi, spesso a ragion veduta, se oggi leggiamo un grande romanzo è un romanzo, se leggiamo una poesia è una poesia, se guardiamo un film è un film, se assistiamo a un balletto vediamo danzatori che ogni giorno fin dalla tenera età si sono educati a quel particolare movimento. In tutte le arti ammiriamo il talento, il prodigio, perfino il lavoro, il sudore: ci stupiamo perché sono il luogo dello straordinario, di quello che non potremmo fare noi che non siamo artisti”.

Viene da chiedersi perché oggi l’arte non sa e non vuole più celebrare la Bellezza, e perché soprattutto ha perso il desiderio e la capacità di produrne; perché prevalgono invece storpiatura, dissacrazione, negazione, bruttezza, fragilità, malattia e noia. Una risposta potrebbe essere forse nella separazione avvenuta da troppo tempo tra uomo e natura, per la quale si è perso quel sentimento di armonia, di letizia, di mistero e di entusiasmo che sorge davanti ad una Bellezza che era richiamo universale, balsamo contro l’horror vacui, forma primaria ed insostituibile di conoscenza sensibile, centro ideale collettivo verso cui tendere.

Il messaggio di tutto il libro è vivificante e chiaro: la Bellezza serve, è utile, è anzi indispensabile, perché niente come la Bellezza sa ricondurre il molteplice ad un sistema ordinatore. La Bellezza è spinta all’aggregazione, che è alla base del farsi della vita e della sua organizzazione. E in un mondo in cui dominano compiaciuti il brutto e l’insensato, è quanto mai necessario rispondere alla chiamata della Bellezza che, come ricorda Crespi nella frase che chiude il libro: “è l’eco di qualcosa di più grande a cui tendiamo e che attraendoci ci fa tremare; risuoniamo alla chiamata tremando”.

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